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Claudio Cerritelli, "Alfabeti del paesaggio. Sul percorso di Luiso Sturla"1. Astrattismo e Movimento Arte Concreta La lettura del percorso di Luiso Sturla prende avvio dall’esperienza dell’astrattismo cui l’artista guarda nella sua fase formativa, per poi affidare la visione pittorica alle materie informali dello spazio lirico, autentica vocazione che accompagna tutta la sua avventura creativa. Prima di avviarsi a esplorare il fondamento di questo orizzonte immaginativo Sturla affronta - come altri pittori della sua generazione - il passaggio dal referente figurale all’idea di composizione astratta. Le figure geometrizzate dipinte sulla soglia dei vent’anni indicano l’inclinazione post-cubista a sintetizzare forme e volumi, come se dell’immagine fosse più importante cogliere la struttura portante che i caratteri particolari della sua complessa identità (L’attesa, 1950). L’esigenza di leggere la realtà attraverso le tensioni compositive della forma esprime l’interesse verso i mezzi elementari della linea e del colore, con particolare attenzione al valore ritmico della struttura spaziale, all’equilibrio dei segni in essa articolati (La città industriale, 1950). Quest’orientamento stabilisce dinamismi costruttivi guidati da un metodo di ricerca dove la sensibilità cromatica si congiunge al progetto organizzativo della forma esplorata nel divenire dei suoi percorsi. Altre opere dei primi anni Cinquanta (Forma marina, Forme concrete nel golfo e altre composizioni senza titolo) rivelano un’oscillazione circolare che scompone il nucleo dell’immagine attraverso le tensioni irradianti del colore, l’idea è di creare forme avvolgenti attraverso dinamiche simultanee. Nelle successive variazioni strutturali del 1953-54 la fermezza dell’immagine si carica di vibrazioni verticali che evocano le architetture luminose, slanci verticali, un susseguirsi di stratificazioni cromatiche e di ritmi lineari che mettono a fuoco dettagli di una spazialità più complessa. Si tratta di macchine spaziali dotate di una dinamica percettiva stringente, una giustapposizione di piani cromatici dove la traccia dell’immagine agisce sempre in primo piano, lasciando che le variazioni del colore emergano dalle zone sottostanti, attraverso luci giocate in profondità, provenienti da spazi interni, quasi segreti. Come ha indicato in un recente studio Marina Travagliati (2010), i riferimenti culturali in questa fase iniziale di Sturla sono molteplici, si passa dalle scomposizioni di ritmi concentrici di Delaunay ai dischi cromatici e ai contrappunti compositivi di Kupka. Senza dimenticare i vortici dinamici di Balla che possono essere considerati la premessa al desiderio di valori strutturali che Sturla sente necessari all’idea di pittura come campo aperto a molteplici possibilità comunicative. D’altro lato, per opere come “La città” (1954) il riferimento riguarda le magiche architetture di Klee, dove lo spazio è sospeso nell’emozione di una geometria sospinta da vibrazioni interiori, mentre per la concretezza strutturale delle forme i riferimenti sono più vicini e richiamano - tra gli altri possibili esempi - l’impostazione di Manessier. Le opere di questi anni iniziali sono dunque pervase da molteplici intuizioni, ne sono testimonianza le composizioni spaziali di forme ellittiche dipinte nel 1955, limpide visioni di mondi immaginari che evocano Arp e Calder, forme di naturale intensità che attraversano il vuoto con movimenti fluidi e musicali, verso la ricerca di nuove vibrazioni. Con questo orientamento in atto Sturla aderisce verso la fine del 1953 al Movimento Arte Concreta (MAC, Milano 1948-1958), alla dimensione costruttiva e autonoma della pittura come sistema di puri rapporti formali. Linee colori e piani si oppongono non solo all’imitazione della natura, ma anche al rigido formalismo geometrico, perché l’Arte Concreta produce - come avverte Gillo Dorfles teorico del movimento - “ concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori”. Attraverso i contatti con il versante sperimentale dell’ambiente milanese, Sturla espone in diverse mostre tra il 1954 e il 1955, partecipando agli esperimenti di sintesi delle arti, questione molto sentita da tutti i componenti del Gruppo. Ciò che lo attrae è il dibattito sulla pittura come allontanamento dall’orizzonte della referenzialità, consapevole che non esiste panorama unitario all’interno del MAC ma una complessa situazione legata alle poetiche dei singoli artisti. La presenza in questo contesto è documentata fino al 1957/58 quando viene nominato coordinatore delle attività per la Liguria, un ruolo che si inserisce nelle prospettive di rinnovamento che il MAC sostiene in piena “autonomia”, pur nel confronto con il panorama internazionale. Nella pittura di questa fase, Sturla affronta problemi di equilibrio, ritmo e movimento come tramiti per concretizzare un’idea di spazio dove forme e colori hanno vita propria, rompono i vincoli razionali della costruzione, esprimono un senso di continua trasformazione affrancandosi da una logica compositiva troppo prevedibile. Ripensando a quegli anni pieni di entusiasmo, Sturla ricorda spesso che era l’astrattismo di Soldati, Magnelli, Reggiani e Radice a suscitare l’interesse più forte, ancor più intenso di quello legato alla rivisitazione delle avanguardie europee, che pur hanno avuto un’influenza decisiva. Queste scelte rivelano la sensibile attenzione verso quella linea astratta che in Italia -dagli anni Trenta in poi- è impegnata a valorizzare un nuovo senso della forma attraverso poetiche individuali diverse tra loro, ma tutte dedicate alla ricerca della purezza formale. 2. Materie informali e dimensioni cosmiche Dopo aver filtrato gli orientamenti del linguaggio astratto e le possibilità di leggere la natura astraente delle forme reali, intorno al 1958-1959 Sturla si avvicina ad un modo di sentire la materia che è quello dell’Informale, avviando un significativo cambiamento: la concezione del quadro come schermo di apparizioni che evocano immagini del profondo. L’amicizia con Pier Luigi Lavagnino - con il quale già dal 1956 condivide lo studio a Milano - lo spinge a indagare le radici di una pittura che cerca luce nelle qualità immaginative della materia, concentrando il punto di osservazione al suo interno, a colloquio diretto con la natura, grembo di ogni istinto e palpito del colore. Su questa via di consonanze tra materia e luce, la visione poetica di Sturla si muove inseguendo a modo suo una vastità di esperienze che richiamano la pittura di De Stael, Wols, Gorky, e dall’altro, la più diretta vicinanza ai pittori italiani come Chighine e Fasce, Guenzi e Repetto. Nel breve periodo fiorentino l’aperta passione per le essenze del colore conduce lo sguardo a misurarsi con le profondità del visibile, svelando mondi di luce vissuti direttamente a contatto con il paesaggio, energie vitali racchiuse tra terra e cielo, flussi di materie trasfigurate dall’emozione che accompagna l’atto pittorico in tutte le fasi del suo continuo esplorare i fondamenti dell’essere, le zone più recondite della coscienza. “Una pittura interioristica - ha osservato Adriana Dentone (1958) - nel significato più puro, già che prescinde dai fatti e dalle apparenze; una ricerca istintiva e intuitiva spinta nel cuore del reale, privo di sovrastrutture o schemi, costituito di vitalità, tensione e dinamismo”. L’attenzione verso i segni segreti della natura fa riscoprire le sedimentazioni del visibile attraverso l’invenzione di un personalissimo alfabeto fatto di tracce e luci indistinte, sedimenti e impronte ritrovate direttamente nei mutevoli umori del colore, segnato da imprevedibili asperità (I racconti della terra, 1959). In altri casi, il clima dell’immagine è avvolto dall’afflato evocativo dei ricordi, dal clima poetico e abbagliante della luce che s’irradia lasciando apparire solo minimi referenti e forme rarefatte (Giochi d’estate, 1959). Decisivo è in questi anni l’incontro con Renato Birolli, con una pittura che indaga il mistero dei colori nascosti nelle cose, verso lo spazio sospeso della visione, superficie assoluta dove sono tracciati segni misteriosi e a prima vista indecifrabili. Tutto ciò accresce il sentimento della pittura come ricerca senza tregua della gioia d’esistere, verità dell’immagine che si svela nel procedimento della sua espansione, moto immaginativo che non ha limiti culturali ma trasforma continuamente l’energia del passato nella soglia emozionante del presente. In “Porta sulle Cinque Terre” (1959) l’impatto frontale con la visione naturalistica si tramuta nella sospensione immaginativa tra la fermezza strutturale della porta e lo slancio a porsi oltre il suo stesso limite. Conflitti o desideri emergono nel momento stesso in cui la pittura si manifesta, senza chiedere altro che la possibilità di trasformare la percezione dei luoghi in tramiti verso l’inesplicabile senso della vita. Di questa tensione irriducibile Sturla si rende conto nel momento in cui si sente avvinto sia dall’evocazione lirica del paesaggio, sia dai magici equilibri delle forme astratte, sia dalla seduzione fisica della materia. Nei dipinti intitolati “Verso Antares” (1959) questa compresenza di stimoli astratto-figurali si sviluppa in una dimensione cosmica dove l’oscurità materica del fondo è attraversata da scie luminose, bagliori che gravitano sulla superficie informe evocando l’altrove, visioni lontane, costellazioni spaziali, cosmologie ipotetiche. Queste opere rimandano al grande intervento realizzato per il locale notturno Antares a Lavagna (1959), circa duecento metri quadrati di superficie dipinta coinvolgendo tutto le dimensioni dello spazio, come un ambiente totale dove le pareti, il soffitto e il pavimento sono partecipi di un unico flusso percettivo tridimensionale. La composizione delle forme circolari disposte sulle pareti si connette alla consistenza del muro lavorato ad intonaco, mentre i rilievi modellati in gesso del soffitto si contrappongono ai motivi decorativi del pavimento che delineano frammenti di marmo rosa che salgono a spirale verso il cielo. La struttura delle costellazioni e l’uso dei cerchi hanno fatto pensare alle composizioni di Kandinsky, o di nuovo alla sinuosità delle forme biomorfiche di Arp. D’altro lato, la consistenza materica può essere collegata alla fisicità della superficie di Tapies o al tattilismo cromatico di Fautrier. Al di là di questi tramiti, l’emozione dello spazio totale modificato dall’ intervento polimaterico evoca gli ambienti di Fontana, la sintesi tra forma colore e luce nel loro simultaneo interagire oltre la percezione del luogo. Infatti, nel corso di questa esperienza dentro e oltre i limiti categorici della pittura, Sturla non perde mai di vista la dimensione interiore e allusiva dell’immagine, la vertigine ambivalente del colore che affonda nella concretezza del visibile per stabilire - in successione simultanea- ulteriori sconfinamenti immaginativi della materia.
3. Carte americane e memorie di luce Le differenti identità dei riferimenti culturali (Europa- America) sono trasformate in un unico spazio intessuto di memorie e di fantasie, uno spazio capace di testimoniare un’indipendenza dell’arte da ogni profitto ideologico. Se è vero che l’orizzonte di Sturla oscilla dalle esperienze dell’informale europeo e quelle dell’espressionismo astratto americano, questa compresenza di umori pittorici si avverte soprattutto nelle opere dipinte durante e dopo il viaggio a New York. L’incidenza del soggiorno americano (1960) assume forte rilevanza nella volontà di modificare il clima delle forme dipinte assumendo - da un lato - la tensione inquieta dell’Action Painting (De Kooning, Kline, Goldberg), e dall’altro - coltivando i sottili turbamenti della materia pittorica, lirica e fantasmaatica, propriamente tipica dell’Informale italiano. Il ciclo di “carte americane” documenta la carica gestuale e la determinazione espressiva di “quell’esperienza, così traumatica (e, insieme, così formativa)”, come ha riconosciuto Gianni Cavazzini (2003), un’esperienza senza la quale non sarebbe possibile comprendere la complessità del linguaggio di Sturla. L’impeto creativo è costantemente alle prese con la verità esistenziale del divenire cromatico ora drammatico e ansioso, ora disteso nella contemplazione della visione interiore. Nelle opere raccolte sotto il titolo “Dopo gli incendi”, l’ardore espressivo si appropria della superficie come luogo di evocazione del vissuto newyorchese, gli incendi visti nel quartiere dell’East Side, ma anche sensazioni precedenti che la memoria riconduce al fervore cromatico della luce filtrata attraverso l’influenza di Birolli. Questa inclinazione verso i valori primordiali del colore sono pretesti per sperimentare il flusso rovente del colore che si addensa e si disgrega nel suo stesso svolgersi, attimi di una visione incontenibile, del tutto sconosciuta prima che il pittore affronti lo stupore del vuoto. La rapidità di esecuzione non ammette pentimenti, tutto avviene nella dimensione imponderabile del fare, nel darsi irripetibile del segno che fissa bagliori, squarci, turbolenze del colore immerso nel fondo dei pensieri. I registri espressivi sono dunque mutevoli, i colori sono in continua tensione con le ambivalenze del nero che domina lo spazio, tracciando traiettorie strutturanti con una forza espansiva che travalica i suoi stessi tragitti, ogni direzione diventa energia in campo aperto. Al ritorno dagli Stati Uniti, verso la fine del 1960, Sturla sembra attenuare il vigore gestuale, tuttavia la pittura è ancora carica dell’esperienza appena fatta, e questo avviene nelle opere in cui i referenti oscillano sulla soglia dei ricordi, sia quelli immediati sia nelle forme disperse lontano nel tempo. Ritmi segnici trasfigurano la densa epidermide della materia (L’insetto bianco, 1960), riflessi elettrizzanti nascono dalle ombre metropolitane (Luci della città, 1960), tracce sospese nel cuore dello spazio evocano stralunate memorie di luce (Quel che resta, 1960). L’adesione verso il respiro arioso del colore si riscontra in una serie di opere informali del 1961 in cui Sturla, ancora sospinto dalla memoria dell’arte americana, invade lo spazio, lo scuote, lo affronta senza arretrare, scegliendo di potenziare l’impatto frontale e le lacerazioni interne. Ne “La grande ferita” (1961) una luce carnale emerge dalla voragine dell’oscurità come apparizione palpitante di un corpo cromatico pervaso dal brivido di segni essenziali, irrevocabili, capaci di trasmettere il senso di resistenza dell’uomo di fronte alle forze che si scatenano contro di lui. Analoga sensazione di dolorosa e irriducibile esistenza si avverte in un’opera dello stesso momento creativo, “Natura ferita” (1961), luogo del primordio, materia messa a nudo nell’atto di aprirsi all’incursione inesplicabile dei sensi, stato di inquietudine che non si placa. Sono questi gli anni di massima tensione pittorica che il giovane Sturla raggiunge al culmine del suo provvisorio percorso verso la libertà d’espressione della materia. E sono anni in cui tutte le esperienze e i riferimenti culturali sono filtrati da una raggiunta consapevolezza del fare pittura come esperienza non più soggetta a vincoli ma pienamente libera di sperimentare percorrendo una strada del tutto personale. Una strada- ha suggerito Arturo Carlo Quintavalle (2000)- “lontana dall’Informale europeo, e da quello italiano, lontana dall’Espressionismo Astratto americano ma consapevole di tutti e due questi grandi momenti di ricerca”. Dunque, una strada dove la pittura sviluppa le linee del proprio carattere senza bisogno di appoggiarsi alle definizioni storiche dell’arte, perseguendo piuttosto un ideale creativo che sta al di fuori delle tendenze che inglobano le poetiche individuali in onde che travolgono tutto il resto. Nel percorso di Sturla - poco più che trentennenon vi sono prospettive diverse dalla visione che ogni volta egli scopre nel richiamo della sua terra, l’unica ossessione è quella di dialogare con il volto immenso del paesaggio, con la luna e le nuvole, le rocce e gli alberi, la vegetazione e gli animali, i misteri presenti nelle sedimentazioni profonde della materia. La sfida è dipingere guardando in silenzio il volto della natura, poema interminabile dal quale trarre ispirazione per immaginare di scrivere il proprio racconto personale, sapendo che l’esigenza di autenticità che questa ricerca comporta è un valore costante per sentirsi animati dall’unica cosa che vale la pena di conoscere: poeticamente il mondo.
4. Apparizioni di natura, scritture della memoria Nelle opere dei primi anni Sessanta è evidente la nascita di un atteggiamento più pacato e meditativo, di una più sensibile adesione alla verità contemplativa della visione pittorica, alle tracce durevoli di ciò che resta della sua apparente identità. Ne “L’insetto bianco” (1961), titolo che riprende un soggetto già affrontato, Sturla gioca sulle vibrazioni che avvolgono la figura fantasmatica dell’insetto con una fitta tempesta di piccoli tocchi, immagine eccitata rispetto alla quale l’artista non sa trattenere i piaceri del segno. In altri esempi di questo periodo, il fervore del gesto viene calibrato con la “durata del sentimento, un sentimento più sereno, confidente, lirico” come ha osservato Marco Valsecchi (1962), sottolineando che l’ispirazione nasce da un profondo rapporto con le trasparenze luminose della natura. Il confronto è dunque con l’emozione immaginativa del paesaggio, con la forza interiore del colore che dialoga direttamente con i luoghi del vissuto, per esempio con i fiumi e i mari di Liguria, e con tutte quelle misteriose fantasie che albergano che nel cuore della superficie. Esse appartengono al mondo delle apparizioni visionarie che durante gli anni Sessanta l’artista torna a evocare con quella sensibilità cromatica che non è mai venuta meno nel corso delle sue stagioni creative. Sturla sperimenta nuove soluzioni per evocare la presenza indomabile della natura, sposta l’angolazione della ricerca verso una più essenziale presenza del segno come strumento di scrittura, mezzo di progressiva articolazione della forma, stilizzata e sottile, sapientemente disposta sulla tela attraverso molteplici spunti narrativi. Tale inclinazione appare limpida nei titoli di un gruppo di opere dichiaratamente legate alla scrittura segnica, alla ripetizione differente di una sola immagine, si tratta di un viaggio iconografico che ha per tema la forma simbolica del “fiore” come segno primario che genera lo spazio. In “Quasi come scrivere fiori” (1966) la ritmica lineare della composizione è basata su variazioni di tipo segnico-cromatico, la purezza formale viene esaltata dall’uso dell’inchiostro, fluido ed essenziale, capace di attivare un gioco di concatenazioni tra la singola forma del fiore e l’intera fioritura dello spazio. Una grafia elementare sostiene le mutevolezze del racconto visivo, forse agisce anche una lieve suggestione ‘pop’, senza che questa allusione possa compromettere la sensibilità dell’epidermide pittorica, il velo di mirabile levità in cui il segno si articola per successioni e cadenze. In una successiva opera dal titolo quasi identico “Come scrivere fiori” (1969) Sturla abbandona la partitura grafica dell’immagine e adotta una trama vibrante, i segni scivolano dall’alto verso il basso con andamenti liquefatti. Rivoli d’inchiostro invadono la superficie lasciando filtrare l’aria rarefatta del cielo, mentre alcune macchie di rosso accendono l’ombroso fluire della scrittura cromatica. A propositivo di questi automatismi segnici si possono indicare riferimenti preziosi, le grafie volanti di Tancredi, gli intrighi vorticosi di Twombly, gli istinti velocissimi di Novelli, attimi di una scrittura interiore che trasformano l’immagine naturalistica nel ritmo del proprio divenire, risonanza che dà sollievo all’incombere del tempo e al peso dei giorni. Tuttavia, anche se Sturla concede al gesto qualche margine di esibizione, la sua pittura non può dirsi gestuale, è interamente assorbita dalla luce, dall’estasi quotidiana del colore, dai segni che captano segretamente le voci del paesaggio, eventi che in se sprigionano echi di altri eventi. Parallelamente, la trascrizione del dato naturale è risolta tenendo in bilico elementi figurali e grafie impulsive, questo è quanto emerge in “Natura in rosa” (1965), spazio poetico immerso nell’evocazione di un colore impalpabile, profumato come l’aria dei ricordi. La leggerezza del rosa emana una luce lieve e sognante, un senso di candore per nulla in contrasto con l’atmosfera malinconica che avvolge il carattere indeterminato dello spazio, l’attonito silenzio che assolve e assorbe ogni stridore. Diverso è il clima compositivo del “Grande fiore e paesaggio” (1969) dove Sturla sembra guardare la natura dal di fuori, delineando la forma del fiore in primo piano, quasi distaccata rispetto a ciò che si agita dietro la soglia della rappresentazione. Si tratta di una fase figurale per cosiddire anomala nell’arte di Sturla, una scelta di circoscrivere le forme che prelude ad un ritrovato senso di immersione nell’atmosfera sconfinata del paesaggio. Infatti, nei dipinti degli anni Settanta la visione non ammette più controlli e calibrate distanze, gli elementi della natura fanno corpo tra di loro con ansia di entrare in contatto con gli agguati del colore, posseduto dalle energie fugaci che si trasmettono allo sguardo con minimi sussurri. Ne “L’albero su fondo blù” (1972) le vibrazioni dei rami dialogano con i palpiti dell’aria, tocchi di verde e di bianco si insinuano nella vastità del cielo, partecipi dello stesso impulso che anima l’espansione cromatica. L’andamento fluente del segno in rapporto alla densità del colore si accentua in “Albero quasi musicale” (1973), la suddivisione del piano compositivo accoglie segni e colori come note vibranti di una partitura che somiglia alle brezze del cielo, all’aria musicale delle forme naturalistiche. Anche se l’artista allude a precisi riferimenti figurali, la sensazione è che la visione ne possa fare a meno, dissolvendo nella profondità dello spazio ogni traccia di natura, così “frutti di magnolia sul mare” (1973) sono presenze dense e informi che galleggiano tra luce e ombra, sospese nella materia acquatica dei pensieri. Materia che riflette su se stessa, affonda nelle fluenze del proprio inarrestabile divenire, senza altro confine che quello di un orizzonte dilatato, oltre il quale lo sguardo si perde nell’indefinita luce del mare che lo avvince. Ma non c’è solo questo senso di sprofondamento, Sturla è attratto anche da visioni apparentemente opposte, egli osserva con egual passione “Il muro e le foglie” (1974), uno spazio mentalmente definito che la pittura trasforma in uno stato di meditazione sullo spazio che sconfina dal suo perimetro. In questo clima d’ispirazione legata alla forza evocativa dei luoghi, la pittura filtra la qualità del colore- luce senza mai sottrarsi alla bellezza dei dettagli, ai misteri racchiusi nelle ombre emblematiche del muro. “Ho dipinto - scrive Sturla (1974) - stagione su stagione, le foglie, le gramigne, i muretti, i frutti aciduli, l’acqua che intride e il vento che asciuga e il sole che rovina e spacca e il buio che dà sollievo e il tempo che marca tutto”. Questa riflessione indica temi e presenze che derivano dal linguaggio diretto della natura, dal brulicare di forme che si trasfigurano nell’incanto del colore che non descrive le cose ma annulla i loro confini, stempera i contorni, vanifica la separazione tra figura e sfondo, conduce lo sguardo verso la certezza dell’indefinito. Siamo di fronte ad una concezione che deriva certo dall’Informale e che guida l’arte di Sturla verso il ritrovamento di una visione dove prevale quella che Franco Passoni (1972) ha chiamato “naturalità della natura”, volendo affidare a questa definizione tutto il senso dell’umano impegno a interrogare le presenze inquiete del paesaggio, le sue magiche risonanze.
5. Presenze nella luce, apparizioni nel buio Nella seconda metà degli anni Settanta, la compresenza di differenti soglie immaginative è la premessa al dilatarsi del paesaggio oltre se stesso, il che non esclude l’adesione alla natura arcaica dei luoghi, alla forma primordiale dello spazio. Basta osservare la dimensione visionaria della “Cava bianca” (1975), per rendersi conto che l’impatto di quest’immagine si carica di luce misteriosa, la materia dilata il suo perimetro sospinta dal soffio espansivo del colore, bagliore sospeso sull’oscurità. La superficie sembra svuotarsi di inutili racconti, tutto corrisponde alla necessità di proiettare la memoria del luogo verso un altrove, trasfigurando gli elementi visibili in tracce disperse nella voracità del vuoto. Sebbene tutto prenda origine dall’osservazione della vegetazione e dalle sonorità ritmiche del vento e del mare, lo spazio evoca vertigini indistinte, flussi interni, trasalimenti di segni, echi di memorie senza destinazione. In “Natura verticale” (1978) il percorso del colore sale dagli umori della terra verso le segrete evanescenze dell’aria, la radice concreta delle forme svanisce in lontananza, sempre più attratte da un’astrazione indeterminata che si pone al di là del paesaggio, fosse anche inaccessibile allo sguardo. La memoria del vissuto sostiene il desiderio di abbandonarsi alle atmosfere quotidiane che scandiscono la nostra vita, in “Verso sera” (1980) il velo luminoso del giorno si tramuta nella curva sfumata del crepuscolo. A qualche anno di distanza, la fantasia di Sturla torna sulla medesima atmosfera evocando un’immagine insolita, una visione dominata da una presenza legata più al sogno che alla realtà, eppure si tratta di una scena che invita ad entrare nella natura e farne parte: “un cervo volante osserva un frutto che cade nella sera” (1984). Di fronte a queste fantasticazioni in bilico tra verità e immaginazione, i dipinti di Sturla sono immersi in una corrente di vitalità che avvicina l’uomo a tutti gli altri esseri viventi, una specie di canto universale dove arte e biologia s’incontrano e si trasfondono. Questi dipinti - come ha osservato Fernanda Pivano (1983) - sono “sempre allagati di luminosità. Acqua, cielo, trasformazioni ecologiche, minuscoli embrioni fantascientifici in una natura diventata spazio”. La forza trasfigurante dei titoli assume in questa fase di ricerca un ruolo non trascurabile in quanto arricchisce e dilata i movimenti di lettura suggerendo orientamenti suggestivi e talvolta inattesi, proiezioni della pittura in un mondo dove le immagini volano sempre altrove. “In una notte di vento la luna esce di scena” (1985) è un titolo letterario pervaso da uno slancio che coinvolge la fugace apparenza delle forme verso un luogo imprecisato. In verità, senza questa indicazione il lettore potrebbe comunque avvertire la forza espressiva del colore, ma il fatto che sia proposta questa chiave interpretativa sembra dire che il senso dell’immagine è nel vento della luce che entra negli abissi dell’inconscio. L’autonomia della pittura non è infatti mai messa in discussione dalla funzione allusiva dei titoli, semmai sono i titoli a dover seguire le avventure del colore che si inoltra nel paesaggio, svelando percorsi inesauribili nella luce dell’ultimo sole o nell’ombra della prossima luna. Sturla identifica nell’atmosfera della sera un sentimento a lui piuttosto caro, la lenta metamorfosi delle cose, spettri e fantasmi nell’imminente incedere del buio, presenze inafferrabili nella trama delle tenebre, lo svanire del controllo razionale dei pensieri. D’altro lato, nulla impedisce di stare immersi nei chiaroscuri di “un grande spazio notturno” (1988), carico di sostanze misteriose e mutevoli, ancora più sfuggenti quando sono filtrate da oscure pulsioni, da sensazioni ombrose che nascono dalle ansie e dalle malinconie della vita. Questi sentimenti non rimangono isolati ma corrispondono alle tensioni che la pittura cerca in se stessa, sono posti in evidenza dalla scelta dei colori che sono alla base del continuo sperimentare la materia. “L’esperienza informale resta fondamentale nell’esperienza di Sturla - ha riscontrato Roberto Sanesi (1985)- ma accede ormai a risultati del tutto estranei alla pastosità magmatica della materia, o al gesto puro, incontrollato”. Non a caso, molteplici “presenze nella luce” (1988) oscillano nel cielo senza reticenze, bagliori trasparenti, scie luminescenti, segni vaganti, forme irreali e fantasmi concreti, umori delle stagioni e sedimenti del mare. Spesso si notano movimenti improvvisi, magnetismi tra forme lontane, sottili insinuazioni di altri mondi, soprattutto il senso del volo, desiderio di spostare l’immagine lontano, anche solo disegnando le ali di una farfalla, metafora preferita dell’artista a caccia di sogni sospesi nel silenzio. Un’altra fonte d’immaginazione che spesso ritorna è l’immagine della luna, l’abbiamo già vista “uscire di scena”, ora è in compagnia di un’eclissi, appare in una visione disposta “verso ovest” (1988), il suo volto si sta sfaldando nell’ atmosfera segnata dalle incursioni corrosive del tempo. Del resto, Sturla ha dichiarato che il suo tempo è indecifrabile, lo spazio si fa cerchio quando egli pensa alla luna, non può staccarsi da questa forma che è memoria di smarrimenti collegati al colore che non ha confini. In un’opera fantasticante come “La luna in un acquario” (1990), minime ombre emergono dalla luce dell’acqua, mentre leggeri riverberi sfiorano il profilo della falce che rischiara la fluida consistenza del blù, manto cromatico che rimanda ad altre sensazioni da scoprire. Le “presenze nell’acqua” non danno tregua all’immaginazione dell’artista, sono il nutrimento costante di un’attitudine cromatica che svela la natura mutevole di questo elemento che anima ogni visione. Il trattamento delle materie è libero di sciogliersi dai legami del paesaggio e di fluire attraverso andamenti sensibili e sensuali, collegati alle trasmutazioni delle forme che stravolgono i procedimenti prestabiliti. A testimonianza del fatto che dipingere è per Sturla un’arte che fa sorgere le immagini dall’emozione che sorprende e sconvolge le ragioni del fare, ascoltando e osservando la natura come essenza stessa del vedere oltre.
6. Viaggi immaginari, visioni senza tempo Nel corso degli anni Novanta il rapporto con il paesaggio procede assimilando altre fusioni tra materia e luce, infatti il metodo creativo di Sturla mantiene ampi margini di manovra affinchè la pittura possa fissare nuove temperature cromatiche, captando all’esterno le energie che servono al lento di processo di addentramento nel corpo del colore. L’affezione per il bianco torna a occupare la mente dell’artista attraverso magie figurali che si rinnovano ogni qualvolta il desiderio di luce illumina lo sguardo dell’origine, il sentimento ancestrale del vuoto. “Verso la forma bianca” (1991) è il sintomo del cammino oltre il visibile, direzione parallela alla costante passione per l’azzurro che segna un altro versante del viaggio verso quella luce sensibile e assoluta che Sturla insegue, senza mai trascurare le sfumature dell’ombra e le sue risonanze. “Rispetto all’azzurro del cielo - ha scritto Stefano Crespi (2006)- il bianco è la forma mentale: inizio, termine, primordio, enigma, vuoto assoluto. Se Proust è la malattia del tempo, Mallarmé è il paradigma del bianco. Il bianco è il testo intraducibile, libero dal rito dei significati, delle interpretazioni, della memoria. La pagina bianca è il silenzio del cielo: uno spazio senza eco, in un mondo annullato, privo di oggetti e di voci, senza colore, senza la suggestione del tempo”. L’apertura di sguardo che il bianco sollecita è dunque uno dei motivi per cui la sostanza della luce non ha mai compimento, è un interminabile percorso verso la meraviglia del suo divenire. Quando l’artista nomina il bianco non è solo per esaltare la sua intensità come dimensione totalizzante dello spazio, la presenza del bianco appare anche con l’ombra, quando dal paesaggio insorgono bagliori inghiottiti dalla forza inglobante dell’oscurità. In effetti, il palpito del bianco fa respirare tutto quanto si percepisce tra terra e cielo, tra zone palustri e intricate vegetazioni, modi diversi di rendere la sostanza luminosa del colore lontano dai toni fangosi e salmastri. “Luce bianca” è il titolo di un’opera che s’inoltra più avanti (2006), nei successivi colloqui che l’artista sostiene con naturalezza esercitando la sua vocazione visionaria che trasfigura l’identità intima del soggetto. Infatti, il costante ritorno della pittura su se stessa permette di verificare la ricerca dell’ultimo decennio come un andamento circolare, un flusso di temi che si sovrappongono e si dilatano verso potenzialità espressive già avviate in precedenza. Una variazione su tema si riscontra in “Ombra bianca” (2007), una piccola forma triangolare sospesa negli umori di cielo e di mare, forse una vela sospesa tra soffi della luce, immagine purissima e segreta che fa pensare alle geometrie incantate della giovinezza. Tale affinamento cromatico riguarda anche l’uso dell’azzurro, non soltanto sinonimo di cielo o di acqua, serenità d’animo e di sguardo, ma anche desiderio di cogliere il fiato del paesaggio al di là delle polarità ambivalenti del bianco e del nero. L’azzurrità presente in molte opere è dimensione stupefatta, luce rivolta al sogno, dischiusa verso un altro spazio, sospesa sul limite dove ha origine l’incanto dei suoi sensi. A proposito degli azzurri inconfondibili di Sturla, Elisabetta Longari (2004) li ha definiti “spesso teneri e carichi di fruscii e tramestii, dilavati, estenuati e perfino gessosi, montalianamente ‘pallidi e assorti’, di una luce tutta interiore, cosparsi di segni spaesati nella luce diafana di un meriggio che balugina a tratti iridescente come ali di libellula”. Dal tenue velo dell’azzurro si passa all’intensa emozione del blù, il colore è inquadrato in una porzione di spazio che evoca lo schermo di una porta o di una finestra, l’esigenza di star di fronte al paesaggio e di guardare oltre. Non a caso, alcuni dipinti del 1998 si intitolano “Il cielo sulla porta”, correlazione di luoghi che l’artista ha sempre in mente, lontananza a cui lo sguardo mira attraverso un punto di vista che avvicina le distanze, condizione inseparabile dalla relazione tra il corpo e ciò che lo circonda. Dentro questa compresenza di misure opposte la superficie pittorica è animata da segni che parlano di stelle, cosmi inafferrabili, echi di suoni anteriori, pensieri in ascesa e senza ritorno, emozioni irripetibili. D’altro lato, Sturla coltiva il suo colloquio con l’umanità inserendo nella pittura lettere vere e proprie, “s’insinua talora - ha osservato Gianfranco Bruno (2000) - la scrittura nel campo vasto del quadro. È questo, forse, l’unico segno tangibile della presenza d’un tempo presente nell’immagine, l’ancora, nella vita dell’artista e della sua pittura, che attesta come l’immagine navighi sì nello spazio dell’immaginario e della mente, ma tenacemente sia intenta a dar figura e senso alla sua, alla nostra, incomprensibile esistenza”. Attraverso la pittura l’artista scrive lettere dal mare e dal cielo, lettere dai luoghi dove l’emozione è forte e tutto sembra condurre verso il sentimento del tempo collettivo, lettere d’affezione a destinatari ideali o sconosciuti, oppure lettere scritte a se stesso, confessioni segrete che l’artista per primo non ha mai creduto di dover rivelare. In “Lettera e luce” (2009) Sturla evoca l’elemento vitale del paesaggio creando un’immagine che oscilla dalla scrittura dei sentimenti privati alla trascrizione di energie cosmiche, con un rispecchiamento di sensi cromatici che sconfinano dalla pagina incollata verso il perimetro della tela. In un gruppo di carte di ammirevole scioltezza la scrittura inventa altre avventure, diventa acquatica e palustre, s’intride degli umori del fiume, capta luci immerse nel crepuscolo, segna con una linea bianca un frammento di cielo, sfida il rosso rovente del tramonto, segue il volo delle libellule, o infine si annida tra gli ossidi e le stelle. L’esperimento del segno non ha dunque limiti, evoca scritture quasi indecifrabili, si mescola alle tracce del pigmento, si fa zampillo, goccia, filo fluente, spessore e lacerazione, grumo e leggerezza, tutto quanto insieme. Un’altra commistione di parole e immagini, di colori e di segni liberi di fluttuare dentro e oltre i codici ricevuti dalla memoria si avverte ne “Il viaggio di Paolo” (2009), uno dei pezzi più compositi che si possono incontrare nella storia di Sturla. L’amore per il viaggio e per i suoi stati d’animo esprime la sintesi di molteplici percorsi tecnici e immaginativi, è la stratificazione fisica del laboratorio mentale che l’artista predispone per trasgredire il linguaggio attraverso i processi qualitativi della materia. A questa dimensione di continua scoperta è legata anche un’altra opera singolare, “Il viaggio” (2008), una carta che gronda di materie sfaldate, l’impronta delle scarpe si ripete come una icona che varia la propria forma durante il cammino verso l’ignoto. Di questa memoria del vissuto non rimangono che tracce dissestate che segnano lo spazio della precarietà e della conoscenza provvisoria del mondo, punto di riferimento costante per la pittura di Sturla, per le sue memorie in cerca di immaginazione.
7. Evocazioni terrestri e sensazioni aeree Il percorso procede verso il presente e intreccia altri gli alfabeti del paesaggio, in “Così lontanì, così vicini” (2007) la struttura compositiva è costituita da frammenti irregolari, reperti di visioni differenti, schegge disposte su un nuovo piano di significati. Emanazioni di umor nero, dettagli corrosi dal tempo, segni incisi su ruvidi spessori, scritture indecifrabili, racconti immaginari, stratificazioni destinate a sopravvivere alla natura segnata dalla violenza e dal degrado. Questa impostazione compositiva è presente in altre opere (Frammenti agresti, 2003; Ombre e segni del tempo, 2008; Nel tempo, 2009), forme elaborate per nuclei, zone separate e accostate, vibrazioni simultanee di segni aerei e di colori terrestri, messaggi che non chiedono risposte. Si tratta di disseminare differenti impulsi cromatici legati a minimi gesti, attimi dove il polso segue il ritmo del cuore e le fantasie della mente, magnetismi congiunti alle urgenze del pensiero irrazionale che tenta di smaterializzare la realtà, oltremisura. Per dipinti dal carattere più fortemente materico si è parlato di riferimenti storici fortemente sperimentali (Dubuffet, Burri, Tapies), autori che hanno offerto contributi fondamentali per rinnovare le avventure della materia dipinta, assemblata e penetrata nelle viscere del suo stesso corpo. Il fatto è che la visione di Sturla punta al possesso delle forme dentro la loro intima essenza, filtra il colore nelle sue trasmutazioni interne, negli echi luminosi, nelle tacite profondità, in tal modo afferma un estro creativo che ama affidarsi ai “sussurri” del visibile, ai moti lievi delle apparizioni. Anche quando la materia sembra allontanarsi da questo stato d’incantamento, non viene meno l’atmosfera lirica capace di sprigionare la vita del colore nei suoi meandri nascosti, negli interstizi appena visibili, senza cedere alla tentazione della pura esibizione materica. In “Prima dell’eclissi” (2003) il respiro del cielo sta sospeso sulla vegetazione che affiora dal buio, natura visionaria e maestosa osservata prima che la luce si inabissi, in attesa che tutto sia avvolto dall’oscurità. Diversamente, nel “Cielo perforato” (2004) lo spazio sembra covare oscuri presagi e lievi avvistamenti, più che di luce malinconica si avverte un senso di irraggiungibile mistero, cresce lo smarrimento di fronte al cielo che si offusca di caligine e perde lo splendore dei tempi sereni. Attraverso i tumulti controversi del paesaggio Sturla inventa ogni volta un diverso sentore del colore, uragani di luce, colpi di fulmine, spazi sconvolti ma anche sensazioni ineffabili di serenità, sintonie con l’immensità della natura. Se da un lato il pittore insegue il trasalire del vento in campo aperto, dall’altro esplora il grembo interno della materia, le increspature che affiorano dagli elementi di dissoluzione della forma. “Paesaggio accerchiato” (2004) esprime la forza d’urto dello spazio frontale (come un antro spalancato verso il mondo), si riconosce in esso un carattere primordiale della forma che stringe d’assedio la luce e ne riduce il campo d’azione. La memoria incalza le forme del presente, “Quello che resta, paesaggio in rosso” (2005) comunica il fervore del colore sottomesso allo sgomento del contrasto tra il fondo oscuro e i segni scalfiti nella luce, residui di un processo ancestrale che agisce all’interno del colore. Con “Natura e combustione” (2009) l’impatto si attenua e il dramma cromatico svanisce lasciando che l’emozione dei contrasti segua il lento decorso delle linee, il loro smarrirsi nei movimenti della ‘natura naturans’. In altre opere, le ombre non lasciano intravvedere il cielo, lo spazio sembra di nuovo assediato da oscure presenze, forme sospese e incerte, sempre sul punto di svanire, sottomesse alle instabili segretezze della luce, echi che provengono dal greto del fiume. Le tracce del vissuto sono sempre evidenziate nella lettura dei titoli, così l’immediato confronto con le opere non basta, richiede lunghi tempi di meditazione, un modo di ascoltare le voci del giardino, luogo simbolico di magiche visioni dove lo sguardo dialoga con le essenze del visibile. L’attenzione per le presenze di animali si commisura al respiro della natura con la meraviglia di svelare “Il posto delle serpi” (2009), “Anatre bianche” (2000) che si mescolano con il flusso del fiume, minimi fragori di luce nel germinare del blù. Nel passato lo sguardo si era fermato “dove sosta la salamandra” o aveva seguito “il viaggio della medusa nella sera” o ancora aveva individuato “alberi e gabbiani” in ascesa verso l’alto. La musicalità dei colori accompagna il ritmo dei pensieri che si frantumano e si ricompongono come segni in attesa di altre presenze, ali di farfalla, insetti e libellule, inquiete parvenze di un mondo spaesato e divagante che esiste solo nella viva presenza della pittura. Talvolta Sturla torna a osservare l’antica immagine del muro, quasi per staccarsi dalla misura sconfinata del paesaggio e porre davanti a sé un limite trasfigurante che comporta altri modi di essere visionario. Davanti al “muro rosso” (2008) si aprono varchi che è necessario intuire attraverso la tensione contrastante del colore, ambivalenza di elementi che s’inebriano di luce oppure si nascondono nelle ombre della materia. La superficie si identifica con questa barriera di apparizioni, in essa prendono corpo bagliori indistinti, segni graffiati, elementi che l’atmosfera contiene in silenzio, aloni, profili incerti, contorni sfumati, presenze indistinte che hanno la capacità di evocare la forma nel difforme. Tocchi di viola verde e bianco esprimono vibrazioni collegate alle figure della natura fissate prima che si dissolvano nel simulacro di se stesse: la struttura levigata di una conchiglia, i fili astratti di un fiore, le sottili nervature di una foglia, un nido di luce senza trama e senza ordito. Quello di Sturla è uno spazio d’insieme dove lo sguardo circola assumendo tutte le posizioni possibili, spazio di continui spostamenti che portano il colore dal centro verso gli angoli, dai margini verso nuclei asimmetrici, le zone preferite sono quelle che rompono gli equilibri convenzionali. In tal senso, la superficie è attraversata da improvvisi transiti, ombre vaganti, figure sfiorate dal pensiero di un ricordo, ciò che conta è abbandonarsi alla moltitudine degli sguardi, non a caso il titolo di un’opera animata da molteplici presenze evoca l’idea di “Popolazione” (2011). A questo intreccio di significati si riconduce la maggior parte delle opere dipinte nella recente felicissima stagione, il suono incantatore delle sirene, i misteri del rosa, i brividi del cielo, le acque silenti: tramiti di una visione che trasforma l’erotismo della natura nell’immagine sacrale del paesaggio. Di fronte a questo dialogo ininterrotto con le fonti del visibile, la costrizione del tempo si annulla nella dimensione evocativa del dipingere, ogni giorno dipingere come se l’esperienza del colore non potesse mai concludere il suo cammino verso le tentazioni sconosciute. “L’artista, nella sua prolungata maturità, - ha osservato acutamente Claudio Nembrini già dieci anni orsono - anziché spegnersi, ripetersi, ammiccare, rischia, e nell’ebbrezza del rischio trova l’essenza delle cose, la loro nudità, la loro vertigine interrogando e interrogandosi oltre quel muro, o quel sudario, dove aveva raccolto i pezzi del suo alfabeto celeste per spiccare di nuovo il volo”. La verità di quest’osservazione vale anche oggi, nel momento in cui gli “alfabeti del paesaggio” scelti per questo significativo percorso di opere indicano che Sturla è sempre in viaggio verso la natura, i suoi dialoghi parlano di invenzioni ancora possibili, di orizzonti inesplorati che attendono di essere rivelati nel divenire senza limiti delle opere future. (in catalogo della mostra "Alfabeti del paesaggio" Museo di Palazzo Reale, Genova)
Elvira LandòLa materia pittorica, la concrezione dei pigmenti che Luiso Sturla nel suo lungo viaggio di artista ha composto sulle tele e sulle carte, vi ha deposto e affidato il suo respiro, il suo sangue, la sua carne. Aspetti, sfaccettature, briciole anche, di un cosmo lungamente amato e scrutato, sono passati attraverso il suo essere, attraverso la sua tensione rivolta - sempre - a restituirne, in pittorica superficie, il senso profondo. Negli anni, Sturla ha elaborato una cifra stilistica assolutamente nuova, ed è giunto ad un informale che trasfigura ogni formula astratta, ogni alchimia degli -ismi, per creare, in stesura materica libera e pure assai sottilmente elaborata, suggestioni di trasparenze, fluire di elementi liquidi, luminosità abissali e velature leonardesche, come in un presagio di rivelazioni, in un discoprimento imminente e inesprimibile, ma reale. Eppure, quanto ci appare, visione, memoria, impressione, sogno…è anche altro, è profonda verità, è rivelazione, e pure…è come un ritorno a casa... Nell’andare peregrinando con lo sguardo lungo gli universi dipinti sulle tele e sulle carte da Luiso Sturla, siamo percossi, quasi tratti fuori di noi stessi, da uno scarto che quelle superfici pittoriche producono in noi, tra cosmo e mito e presto veniamo persuasi a comprendere che quello scarto è in noi. Nulla del reale viene eluso o scartato, nessuna minima traccia: che è se stessa, e altro ancora: Sturla ci apre le porte della visione con null’altro che il puro sentimento dello sguardo, tenace, innamorato, fedele, sguardo che decifra, cattura, quindi conosce. Ed è una realtà intima a noi stessi, in verità, quella che risorge dalla materia inerte, dalla pastosità pur luminosa delle superfici. I diversi dipinti si compongono, soprattutto se li contemplate come corpi abbandonati lungo le pareti del suo studio, come le varie anime di un uomo: un universo interiore fatto di ricordi, di strazi, di stupori, di visioni, di rimpianti, di passioni. Allora vi trovate come in faccia all’oceano, sedotti dall’infinito, dall’inaspettato altrove. Questo è mito, realtà aurorale densa di significati, pregnante nel rivelarsi, invito a rinnovare lo sguardo, e insieme densa e sacra forza di una manifestazione, alquanto metafisica, mai meramente psicologica. Infine, è annunzio di verità dimenticate, di universi di sensi posseduti e già perduti…. I colori che Luiso Sturla affida alle carte, alle tele, sono in prevalenza gli azzurri, i cobalto, le biacche, ma da qualche tempo vi esplodono i rossi, dal carminio, al magenta, al vermiglione, al rosso di garanza. E sembra di affondare in un gorgo, quasi presi da vertigine, e i rossi vi bruciano l’anima. Mentre gli azzurri propongono un universo palpitante dove scorgete la vita ai suoi albori, i segreti notturni che l’acqua custodisce, l’ala di un insetto che freme sull’acqua, una porta che si chiude, un ramo spezzato, un’ombra sul fiume, forse un uccello ramingo, in un soprassalto di memorie che riaffiorano, di sogni che si svelano, il rosso invece dilaga, vi cattura dal profondo, vi toglie il fiato, vi trasporta in luoghi così remoti che poi scoprite come in verità vi appartengano. Sono i luoghi dell’anima, che vivono della relazione con l’immagine, con la visione. Potenza arcana e rivelazione astratta del saper vedere... Meraviglioso dono della pittura quando si fa arte e si trasfigura in altissima poesia. (in catalogo della mostra: Atmosfere. Universi ritrovati, Museo di Palazzo Ravaschieri, Chiavari (Genova), ottobre 2011)
Flavio Arensi, "Il fiume, gli insetti. Io sono un quadro di Luiso Sturla"Contestualizzazione autobiografica
Negli anni che accompagnano il nuovo millennio sono sempre più cosciente della solitudine cui l'età - forse - anziché i tempi mi sospingono. Non che sia un esercizio insopportabile anzi, tutela i residui di pace tralasciati dagli inganni dei rapporti e dal moto delle persone entrate a pascolo fra le mie stanze aperte. In talune occasioni tace persino la strada sotto alla mia finestra ma sono le ore tarde della notte, o le prime del mattino, io le preferisco. Se non dormo resto in una cella ristretta dove sopravvivo, faccio i compiti che mi si chiede, e leggo, quando gli occhi riescono a trovare il nesso fra una riga scura e quella chiara. Mi annoio d'immediato, reclino contro lo schienale un pezzo della testa, chiudo le tempie e quello che ne consegue, lascio un mantra a pregare in sottofondo. Le delusioni costruiscono muri di difesa e col procedere dei giorni è vero ci si accapiglia meno, forse affievoliscono gli ormoni, ma soprattutto - io - evito gli affanni così vorrei, non sempre riesco. Sarà un fatto di pigrizia, o quella specie di saggezza che è il distacco. D'inverno mi piace la spiaggia vuota e il rumore della sabbia sporca del gelo mattutino, le conchiglie fratte l'estate precedente. Molti suppongono i grandi viaggi principino dal mare perché non hanno mai disceso un fiume; e non parlo delle anse importanti dei grandi nomi lontani, ma dei torrenti che cadono dalle alpi e diventano condotte larghe intersecando nuova acqua e altro ancora. E poi i canali, l'odore saturo della terra argillosa e colma di animali, insetti che esplodono come un fico maturo caduto a terra. Ho visto l'oceano dal comodo ripostiglio di un amaca, ho ascoltato per ore il suono roccioso delle onde dell'Atlantico, il canto di uccelli mai più rivisti però il ronzio delle libellule sul greto di un ruscello porta un motivo dolce che ricorda le parole di mia nonna, mentre ero indaffarato, e i suoi richiami a fare casa nell'ora della sera. Da ragazzo dietro il cortiletto, le marcite portavano l'acqua torva dei fossi, ed erano quelle le paludi epiche dei romani di ritorno dalla Gallia, gli acquitrini di Colombo sbarcato a San Salvador, prima di ammazzare come pulci gli amerindi. Il grano d'estate asciugava le pozzanghere, popolava come fitte i campi fino almeno alla Circonvallazione, dove stendeva a inizio agosto una pelle sottile di ranocchi morti, schiacciati e ancora schiacciati e secchi, come lapidi di un chiacchiericcio lastricato. Oggi vivo ai bordi di una piazza cittadina e il tramonto è preceduto dai lampioni gialli di finto gusto parigino, l'alba l'intravedo al televisore. La domenica mattina sfoglio il giornale, suona qualche testimone, poi vengono i ragazzi e berciano, come gridano i maiali. Vorrei trovarmi solo, e non esiste solitudine nel rumore.
Un haiku di riposo
In città non riesco a cominciare i romanzi, il brusio di fondo delle macchine mi trattiene. Ho Perec e la sua invidiabile capigliatura come monito alla mia stasi, e dura da mesi. Gli haiku, gli haiku invece stanno come interstizi bianchi in un magma nero, aprono scorci e sugli scorci invitano un panorama nuovo. Ne ho trovato uno in una grande antologia color zafferano: è di un medico samurai, Mizuta Masahide, del periodo Edo, quello della grande pratica fluttuante del Ukiyo-e.
Il fieno del tetto è bruciato ora posso vedere la luna
Il mio fienile è saturo di materiale, l'odore acre della fermentazione fra spiga e spiga, tra i legni che accanto uno all'altro trasudano come quando in estate dormo col corpo di mia moglie accanto, immobili e ammassati. E pigio anch'io i ricordi come si ammassa il trinciato dei campi, c'era - e ne ho viste in certe parti - chi ci costruiva i tetti; una volta nel Kent stavo in un cottage ed era strano il colore stinto della paglia ci separasse dalle stelle. Potessi cancellare la memoria toglierei i giorni odiosi, e tante nozioni che sono cronaca di altri, talvolta assimilazioni poi perdute, conquiste vane, ma gli haiku, gli haiku sono perfetti, hanno i confini dell'universo iscritti in diciassette sillabe giapponesi, ed è un peccato non sentirne l'eco originale, soffiata, biascicata, come si declamano certe poesie che fanno bene allo spirito, nei momenti delicati della nostra esistenza, mentre in pace ci si bagna di Luna.
Il pittore che ha bruciato il tetto
Luiso Sturla continua a dipingere nonostante tutto. Io avrei già ammainato bandiera, sarei scappato dal terreno di battaglia, nel buen retiro che spesso immagino ai piedi di colline dolci, col vento caldo che trasporta il sapore acre dell'oceano; per certi verso l'ho già fatto. D'altronde, lui, dal mare viene e forse cerca una possibilità diversa dalla nostalgia che sempre mi offrono le onde. A Chiavari passa un fiume che è solo l'ombra di qualcosa che fu e anche dovesse sparire coperto dal cemento esisterebbe comunque a ragione dei suoi dipinti; bastano i chiari che si espandono sulle tele, i colori che serpeggiano e le macchie scure, i puntini neri spersi intorno alle figure per capire cosa potrebbe essere il luogo che è stato, in cui Sturla ancora vive fisicamente o di ricordi e di fatto, in cui io stesso vivo grazie a lui. Non so bene quando abbia dato fuoco alla paglia del suo tetto, però ha sempre avuto il coraggio di cercare la Luna, tant'è che il magistero dell'arte - la scintilla con cui brucia la stoppa del soffitto - resiste ai problemi quotidiani. In questi anni che accompagnano il decennio pochi pittori mi hanno appassionato come Luiso perché pochi hanno prima costruito una struttura poetica sicura, poi abbandonandola hanno dimostrato il senso della libertà del loro mestiere. Quando un bambino dice di volere andare sul Marte bisognerebbe invitarlo a chiudere gli occhi. Ecco, i quadri di Luiso sono le mie palpebre abbassate, chiuse sul mondo di fuori per ascoltare il gran teatro interiore. Ho capito dopo tante frustrazioni che i peggiori terremoti avvengono fra le pieghe dell'animo umano, e per qualche artista, probabilmente, nel lavoro. Ammiro chi porta nel dipingere la calma sottile dei ricordi, degli amori, delle sensazioni, e nonostante fuori imperversi la tormenta, abbia il rumore parco degli insetti a mantenere l'equilibrio del cuore. La palude è così piena di vita da annichilire il fiato, tutto si svolge entro i confini sottili dell'esperienza, così ogni cosa passa e scivola distante, bisogna solo sapere aspettare. E anche se Luiso mi ripete che non ha più tempo per le attese, ogni quadro ne trascrive in parte il segreto che è la speranza. E la speranza è un rischio perchè lascia sempre una possibilità incontrollata. Lascia sempre uno spiraglio che chiede di essere vissuto.
Arturo Carlo Quintavalle, "Sturla: luoghi come mito della natura, natura come memoria della pittura"La mia è una generazione che ha vissuto l’Informale come momento di rivoluzione, di trasformazione, anche di rifiuto delle avanguardie, quelle astratte e quelle comunque legate alla immagine, e ha vissuto quella rivoluzione collegandola a filosofie diverse, l’esistenzialismo e i suoi rifiuti, poi anche la fenomenologia. So bene che, di tutto questo, Sturla potrebbe non avere avuta piena consapevolezza ma il fatto stesso che dal movimento Arte Concreta sia passato a un modo di dipingere del tutto distante, il fatto stesso che sia stato nel 1960 e per un anno intero negli Stati Uniti scegliendo, non certo per caso, la pittura dell’Abstract Expressionism come punto di riferimento, il fatto stesso che ancora oggi egli conservi alcuni disegni di Alexander Calder amichevolmente donati, e poi delle gouaches e disegni che testimoniano del dialogo con Guston e Rothko, con de Kooning e Motherwell, fa pensare che la presunta ignoranza del contesto internazionale sia una tesi insostenibile sia dalla critica che dall’artista. Voglio anche aggiungere che, vedendo in studio a Milano e a Chiavari le pitture di Luiso, anche quelle voltate contro il muro, quelle per lui più riuscite e quelle invece che magari, sbagliando, egli ritiene meno importanti, ho sentito subito un’aria familiare, come se mi fossi incontrato con loro, o con ricerche analoghe, già ben conosciute. Infatti il dialogo con Pier Luigi Lavagnino, un artista importante e da poco tempo scomparso, mi è sembrato evidente e questo dialogo viene confermato da una lunga amicizia, durata in Liguria per molto tempo e che poi, in qualche modo, si è affievolita alla distanza. Un’altra aria familiare mi sembrava di sentire nelle pitture di Luiso, ed era quella degli “Incendi nelle Cinque Terre” di Renato Birolli, e quindi un particolare modo di porsi di fronte alla immagine, da una parte attenta al reale, dall’altra sensibile a quello che il mondo reale finisce per rimuovere, obliterare, insomma era un modo, quello di Luiso, di seguire una tradizione, un filone di ricerca che del dialogo con lo spazio, con i luoghi, fa il pernio stesso della propria ispirazione. Poi c’era un’altra chiave di lettura che mi è parsa subito molto importante, quella in Luiso suggerita dai titoli che sono davvero, nell’arte di oggi, quanto di più attento alle invenzioni kleiane mi riesca di ricordare; titoli poetici, certo, ma sopra tutto titoli allusivi al punto di partenza, poi rimosso, della invenzione dell’artista. Racconto un solo episodio: a Chiavari Luiso porta me e Gloria Bianchino sulla Entella, il fiume, certo, largo anche, con la superficie dell’acqua inquinata, sporca da depositi, chiazze d’unto, resti di carte e detersivi. Luiso mi fa vedere il fiume, mi spiega perché lui lo dipinge, quello che lui sente nelle acque scavate di verde, e, alla fine, mi mostra un ramo con sopra un paio di gabbiani, e una lanca dove l’acqua verde gira lentamente. Le lanche, le anse di acqua quasi ferma ai lati del corso del Po, tanto amate e dipinte da un altro pittore dell’informale, Goliardo Padova, ecco per me un’altra memoria dentro quella immagine. Poi, in studio, vedo alcuni quadri che sono proprio un racconto su quel giro scuro di acque e di macchie bianche di gabbiano e capisco che in fondo, oltre alla stratificazione della materia, di cui dobbiamo certo parlare, c’è nel racconto di Sturla molto altro, una densità di memoria e una attenzione per la durata che non sono consuete. Sturla ha voluto inserire solo due opere su carta del periodo precedente questi ultimi anni, quindi ha voluto in qualche modo escludere una lettura storica della sua ricerca, eppure proprio da queste sue due opere si possono inferire suggestioni diverse. Così “1969” propone come delle isole, delle apparizioni di forme sulla carta che evocano apparentemente Antoni Tapies ma, più da vicino, le forme fuori del tempo di Paul Klee oppure le scansioni dello spazio di certo Burri dei “Ferri” e delle “Plastiche”. L’altro pezzo, “Paesaggio verso sera” (1996) mostra un diverso versante di Luiso, il suo lungo dialogo con l’arte statunitense dell’Abstract Expressionism; qui il riferimento più evidente è a Mark Rothko ma anche a Fautrier evocato nella scelta dello spazio del colore come sospeso in un nucleo al centro del foglio. Credo che Sturla viva all’interno di una mitologia, quella dell’arte secondo la filosofia.
Alberto Zanchetta,Per un critico d’arte risulta sempre più difficile parlare di pittura, è come addentrarsi in un campo minato, si rischia d’essere claudicanti per il timore di incappare nel banale e nel superfluo. Tuttavia, osservando l’odierno panorama artistico ci si accorge che la pittura detiene ancora il suo largo monopolio. Contumace, dunque, lo è sia l’artista sia il critico, entrambi si deliziano del loro “errore”, vincendo la reticenza: inutile rastremare le forze, inutile cercare attenuanti, bisogna redarguire la premessa e ammettere la propria, insaziabile, passione verso i pennelli e i colori. Ad esserne persuaso è Luiso Sturla, spirito diuturno, instancabile, il cui atteggiamento serotino non attende altro che il baluginare della creatività che è vita. “Penso che la pittura - ha detto l’artista - resterà viva fino a quando ci sarà qualcuno che crede al suo incanto”. Convinzione che ai nostri orecchi suona come una fede incrollabile (negli strumenti della pittura) e come un irrinunciabile bisogno di creare (ossia di lavorare, perché non si smette mai di “imparare il mestiere”). Del resto la pittura non la si può semplicemente apprendere in forma teorica, né la si può insegnare o tramandare verbalmente, è necessario viverla in prima persona, facendone esperienza diretta. È così che Sturla è riuscito a mantenere un personalissimo modus pingendi, un’eterotopia in cui il figurale si fonde con l’informale, idiomi contrastanti che nella loro vicinanza possono essere letti con nuovi occhi, accrescendo le proprie valenze estetiche e psicologiche. Quella che potrebbe sembrare una pittura dieretica - che divide, che separa - nasconde infatti un’intrinseca volontà di riconciliazione. Dibattendosi tra lo scisma e l’armonia, l’opera di Sturla ricerca quell’eterna mezza mela che ancora manca, e la cui somma non eccede mai il noumeno, perché l’essenzialità raffinatissima (eppur densa di colore - materia) scava nelle esoteriche pieghe dell’interiorità, alla ricerca del sentimento, dell’emozione e della memoria. Senza sosta, i quadri dell’artista si susseguono negli anni come le pagine trasognate di un diario di viaggio, come i flussi di un inarrestabile monologo autobiografico in bilico tra visibile e invisibile. Per quanto apparentemente incorporea, la realtà dipinta da Sturla assume consistenza nei simboli e nelle scritture - sfilacciate, prosciugate, quasi illeggibili - incise in una materia nebulizzata, sempre pronta a lasciarsi contaminare dalla poesia e dai ricordi. Ne nasce un mondo animistico che travolge anche gli ultimi residui di una fulminea stagione astratto - geometrica per sfaldarsi in immagini atmosferiche che rompono le briglie troppo strette delle costrizioni segniche. Prevalgono allora le trepidazioni naturalistiche, l’evidente e affettuoso legame con il retroterra ligure che impregna le tele di iridescenze e riverberi che si affievoliscono in sfumature decisamente plumbee (“Inseguimenti”), o in toni che virano dal blu al viola, e che parrebbero in procinto di ritirarsi in microcosmi malinconici e impenetrabili (“Ombre e segni nel tempo). Sembra quasi di potervi sguazzare in quelle distese brulicanti di fiori, foglie, libellule e insetti (“Nella sera discorsi”, “Misteri palustri”, “Dispersi dialoghi in giardino”), rimanendo intrappolati in fondi paludosi, popolati da misteri e ospiti inattesi. Altrettanto inattese sono le finestre e le porte, varchi enigmatici/ermetici che irrompono disordinatamente nel vuoto circostante. A volte, però, è lo stesso colore a imporsi (“Nel blu”) e ad azzerare ogni altro elemento, creando così una tabula rasa che preannuncia inediti ricominciamenti. Si converrà dunque sul fatto che gran parte della fama pittorica di Sturla è associata alle gradazioni dell’azzurro, con quell’intenzione di annegamento - aveva scritto l’indimenticato Roberto Sanesi - che si origina nel mare del Tigullio. Eterei e leggeri, i blu - azzurri delle acque sono gli stessi usati per dipingere i cieli, come a voler trasformare l’affogamento in un’apnea volontaria. Un respiro che lo spettatore trattiene poco prima di accedere a paesaggi intrisi di nebbie e vapori, luoghi permeati da soffuse luminescenze in cui i colori smaterializzano la rappresentazione fino a trasformare il supporto di uno spazio visionario e sconfinato. Uno spazio vissuto non tanto in superficie, quanto semmai dall’interno. Ma più del pittore, a penetrare questo involucro simbolico - materico è lo stesso universo di trame, impronte, di residui che appartengono alla dimensione privata, intima, di Sturla. Le tracce lasciate dall’artista bastano infatti a rappresentare la dimensione magica di un mondo fatto di colori, luci ombre e apparizioni sfuggenti. Diceva bene Stefano Crespi quando riconosceva a Sturla la capacità di aver raggiunto una sprezzatura interiore che pare accordarsi al murmure della pittura, ossia a quell’azzurro che sembra un’abluzione dell’Io; ma la pregnanza che il vocabolo “sprezzatura” ha nell’opera di Sturla merita un approfondimento, e un chiarimento. “Del vocaboli italiano sprezzatura troviamo nei dizionari definizioni diverse, molto belle e molto imprecise, non avendo la nobile parola sinonimi o equivalenti. La parola sorella, eleganza, non sembra riconoscere alla sprezzatura la sua qualità creativa, la sua fiamma comunicante; piglio la confina nella deliberazione, disinvoltura la dissolve nel gesto. Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta. Prima di ogni altra sprezzatura è infatti una briosa, gentile impermeabilità all’altrui violenza e bassezza, un’accettazione impassabile di situazioni immodificabili che essa tranquillamente “statuisce come non esistenti” (e in tal modo ineffabilmente modifica), ma attenzione. Non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata”. Legittimo e profondo è l’uso che ne fa Sturla, il quale non dimentica che il carattere della sprezzatura può esprimersi anche nella sua versione flamboyant. Consapevolezza di cui aveva dato prova negli anni Sessanta con la serie di disegni e di tempere intitolati Dopo gli incendi, realizzati in occasione del suo soggiorno newyorkese. Allora Sturla non concedeva nulla al colore della fiamma viva, fissava viceversa quel che restava delle vampe che devastavano di continuo l’East Side. Era una vera e propria “Stagione dell’Inferno”, presa di mezzo tra le combustioni del quartiere e gli ardori della gesture painting che animavano l’espressionismo astratto americano. I toni, che trascoloravano dal terrigno al cinereo, davano testimonianza di un furore distruttivo ormai sopito, ma mai estinto. In anni recenti l’ossidazione cromatica ha quindi riacquistato il suo ardente sfavillo, e qualora non si a timidamente accennato (“Ipotesi di un incendio”) finisce per deflagrare in cascate fiammeggianti (“Luci, ombre e materia”). Ciò nonostante, Claudio Cerritelli ha recentemente notato che l’igneo cromatismo di Sturla “non simula l’azione del fuoco, è colore in disgregazione, rosso bruciato che muta in rapporto con l’atto del dipingere, tensione soggettiva nel flusso del proprio tormento. Non v’è alcun contenuto letterario o filosofico ma solo necessità di affidare all’opera il turbamento di una corrosione interiore, ciò che resta visibile di un processo di trasmutazione della forma che corrisponde ad un carico di energia in divenire”. Acqua e fuoco appartengono ai riti della purificazione, ma da cosa l’artista deve redimersi? I blu e i rossi, diversamente dal nero che fa loro da raccordo, costituiscono gli estremi del lirismo Sturla. Un lirismo tormentato, sofferente, conteso tra diluvi e incendi, perchè “i pittori liguri - puntualizzava il sempre perspicace Flavio Arensi - conservano sempre un dolore sottile, una specie di cicatrice che fatica a rimarginare”. Luiso Sturla non è estraneo a quel malessere: baratro esistenziale che affligge gli animi di molti suoi contemporanei. Dopo l’iniziale ricerca legata al Gruppo del Golfo, una sorta di smarrimento corporeo travolse i già pericolanti fondamentalismi dell’astrazione concretista, soccombendo ad una ricerca più intima e raccolta che a tutt’oggi contraddistingue la pittura dell’artista. Osservando le sue opere non si può parlare di figurativo o di astratto ma di pulsioni dell’Essere che si abbandonano all’essenza della materia, all’amplesso vertiginoso con il colore che si spande, ricopre, coagula, macchia e lacera. Sennonché, a differenza di altri pittori della sua generazione, Sturla non esibisce i mali che avvelenano la società, al contrario, li esorcizza nell’humus della pittura. Tutti i suoi dipinti hanno il pregio di non essere queruli, e se anche sembrano in difetto di un’eccessiva introspezione, essendo silenti come i loro soggetti, ne hanno tutte le ragioni, giacché non si può spiegare con le parole ciò che smuove i sentimenti e i moti dell’anima. Quelle di Sturla sono opere aperte, e perciò sempre passibili di nuove interpretazioni, di nuove riprese ed estensioni. Appartengono a quella pittura che potremmo definire “fluttuante” (così è detta l’attenzione dello psicanalista, strumento dell’intendere e dell’interpretare che in questa sede si confà allo spettatore) sia da un punto di vista tematico che idiomatico, oltre che temporale, in quanto nell’artista persiste la volontà di riannodare il presente con il passato, rimanendo fedele a se stesso più che agli stili e agli ismi dell’epoca moderna. In mezzo secolo di fervida attività, la coerenza intellettuale di Sturla non è però priva di innovazioni. La dottrina dell’eterno ritorno di nietszchiana memoria è qui riferita non più a un tempo storico ma a un tempo individuale, non quindi alla collettività ma all’individuo; allo stesso modo, anche la “volontà d’arte” (il kunstwollen coniato da Alois Riegl per indicare le specifiche intenzionalità da cui discendono le diverse tendenze artistiche succedutesi in sequenza cronologica) non comporta “progresso” rispetto alla Storia dell’Arte ma un caparbio, costante “cambiamento” personale. Una differente coazione a ripetere che è una rinnovata giovinezza che continua a stupirsi di sé. Perché Luiso Sturla ha trovato nell’incanto della pittura il suo elisir di lunga vita. (in catalogo della mostra L’ospite inatteso, Galleria Alquindici, Piacenza, gennaio 2010)
Claudio CerritelliPer chi si è consacrato alla pittura senza possibilità di uscirne, anche la stagione della cosiddetta maturità rappresenta un continuo mettersi alla prova della materia, un lento disporsi verso le apparizioni del colore dove la memoria del passato si congiunge all’ultimo desiderio. Desiderio di far pittura al di sopra di ogni garanzia, voglia di attingere alle fonti del paesaggio ultimo possibile, lento cammino verso le sue verità incolmabili, evocazione di sensi nascosti in ogni minimo segno. Da sempre, per Luiso Sturla la superficie è il punto più profondo del suo rapporto con la natura, luogo di affioramenti ed echi immaginari, meditazione sul senso divorante del colore che assorbe tutto rilasciando tracce vissute nell’abbandono alle voci del paesaggio. In questo percorso che può dirsi intimo la pittura guarda l’ignoto attraverso la labile emozione del vuoto, è ispirazione che ne rivela gli umori reconditi per tutto il tempo necessario a sprofondare nel respiro di un paesaggio illimitato, che si mostra nell’attimo in cui si nasconde. Allo stupore della natura corrisponde la passione senza scampo per la materia, per anni Sturla ha guardato il cielo e il mare come spazi incantati, plaghe comunicanti di solitudine, zone di ascolto per silenzi e fragori, risonanze sospese e atmosfere lontane, riverberi di luce interiore. Ogni ricordo di vastità possibili viene oggi rimesso in gioco con la medesima attesa di sensazioni sconosciute, il pittore si lascia infatti condurre verso immagini che tornano su se stesse, ricrea lo spazio delle cose smarrite eppure ancora presenti, è come se la loro prima apparizione fosse l’ultima. Per Sturla dipingere è dunque stare dentro i flussi circolari del suo percorso creativo, non è mai questione di novità linguistica in quanto l’esperienza del colore non ammette salti in avanti ma slanci all’interno della materia, gesti in continua germinazione, capaci di rigenerare il fondo delle proprie sensazioni primarie. Il destino del paesaggio non sta fuori della pittura ma dentro la sostanza stessa del colore, punto di rivelazione senza confini della natura immensa e vivente, identità di frammenti e lacerti, pensieri alla deriva, sguardi sopra l’abisso, tracce fruscianti sul fiume, in sintonia con i suoni sommessi di creature viventi, insetti e libellule, fiori e licheni. Questa è la condizione perché il colore possa trasmettere istanti d’inquietudine e desideri di vaghezza, perimetri di luce e ombre spaesate, trovando un equilibrio tra le opposte tensioni dell’immaginario, fino a racchiuderle magicamente nell’intuizione dello stesso spazio. Nel passato Sturla ha dipinto nature osservate all’imbrunire, oscuri agguati della memoria, chiarori latenti e forme bianche, giochi nell’acqua e voli nel vento, in tal senso ha amato le forme destinate a sfaldarsi, atmosfere palustri e scogliere celesti dove perdere il controllo. Per lunghi tratti è stata pittura pervasa da sottili presagi e lievi trasalimenti, attraversata da pensieri inafferrabili, in bilico tra forme quotidiane e sentimenti cosmici, sonorità notturne e vibrazioni di ossidi in dialogo con le stelle. Ogni immagine è grembo di colori che emanano ricordi, messaggi da luoghi invisibili di cui lo sguardo esplora ciò che sta sotto l’epidermide, viene e va attraverso tempi che è difficile misurare. C’è sempre qualcosa di inaccessibile nelle pieghe del paesaggio, è il potere allusivo del colore che sfuma senza contorni, soprattutto quando il pittore sta immobile davanti all’eclissi provando un’emozione senza luce, il senso dell’imperscrutabile che ipnotizza lo sguardo lentamente. Di un tramonto al culmine del propagarsi “quello che resta” (2005) è il bruciato fervore del rosso, la pelle escoriata del visibile, il contrasto con l’oscurità del fondo e il palpito di segni immersi nella luce, minime tracce scalfite nel cuore della superficie. Per allontanarsi dal paesaggio, talvolta Sturla si affida all’immagine del muro, limite visionario che incombe sullo sguardo che non vuole superarlo, semmai ama collocarsi dentro la vertigine del suo spazio allucinato e lasciarsi incantare da fantasmi cangianti. Davanti al “muro rosso” (2008) il bilanciamento tra luce e ombra indica il momento stesso in cui il colore passa da un’intensità al suo opposto, la tensione intermedia del vuoto si amplifica, diventa un intervallo necessario a intuire il varco che congiunge le sponde dello stesso flusso. La percezione di questa ambivalenza è legata ai suoni interni del colore che insorgono e nello stesso tempo si spengono, s’inebriano di luce fino a nascondersi nelle ombre ruvide dell’inconscio, vivendo istante per istante i trasalimenti dell’orizzonte fino al culmine del cielo. “Nella sera l’ospite sul muro” (2008) sollecita un’ulteriore decifrazione dei segni che Sturla immagina inghiottiti nella superficie, nel rosso prende corpo un’ombra consistente che allude a una figura ovattata d’oscurità, avvolta nel mistero dei bagliori circostanti. Mentre il rosso si attenua, si avverte che la figura davanti al muro è un intrico di segni graffiati nel nero, memoria di un corpo scavato in profondità, in procinto di perdere ogni connotazione. Del resto, per Sturla le immagini sono quasi sempre impronte che si fondono tra muschi e corsi d’acqua, aloni d’aria con profili sfumati, ad atmosfere dai contorni incentri che rimandano ad alfabeti primordiali senza tempo. Quelle che occupano gli angoli di una tela intitolata “presenze nel rosso” (2008) sono aliti ardenti nel flusso instabile della luce, s’intravvedono bagliori, tocchi di viola verde bianco, e altri umori sospesi nello spazio, miraggi di luoghi fissati prima che si dissolvano nell’ombra. Servirsi dell’impronta significa mostrare l’identità che ha smarrito il corpo e lascia il simulacro di se stessa, il valore dell’assenza è una presenza che si assottiglia in vari modi: la nervatura di una foglia, la trama di una conchiglia, i filamenti di un fiore, le strisciate di una serpe. L’estremo limite a cui Sturla conduce la vibrazione del rosso sta nella densa matericità di una tela che parla di “combustione” (2009), la materia è rappresa e cicatrizzata in grumi che emergonodal fondo, sembrano piaghe di colore che tuttavia non è mai preda di effetti estetici, è sempre in funzione della sua fisica rispondenza al sentire pittorico. La pittura attinge all’evento nel suo disfarsi, non simula l’azione del fuoco, è colore in disgregazione, rosso bruciato che muta in rapporto con l’atto del dipingere, tensione soggettiva nel flusso del proprio tormento. Non v’è alcun contenuto letterario o filosofico ma solo necessità esistenziale di affidare all’opera il turbamento di una corrosione interiore, ciò che resta visibile di un processo di trasmutazione della forma che corrisponde ad un carico di energia in divenire. In questo ordine di ragioni la forze del dipingere sta nel rilanciare il rapporto con la natura senza rinunciare ai momenti di sgomento e di serenità, per assaporare al massimo grado di intensità le insinuazioni e gli sbalzi del visibile dentro il corpo circoscritto del colore. Ciò significa non volersi separare mai dalle tracce visionarie della materia, sempre superiore alle possibilità che ha l’artista ha di rappresentarla e definirla. E perché mai dovrebbe definirla? Non basta forse assecondare il desiderio di attraversarla, trattarla senza soluzioni stabilite, condurla per mano dalla forma all’informe, dal valore tattile del pigmento al suo alone indistinto, dal minimo dettaglio fino all’indeterminato sconfinamento? Questi caratteri portano a vedere la pittura di Sturla in una prospettiva storica affine a quell’universo di esperienze eccellenti che la critica ha indicato a più riprese, critici che sono entrati in empatia con l’artista ligure, da Sanesi a Tassi, da Bruno a Beringheli, da Nembrini a Longari. Da un lato, si fa riferimento a De Stael, Wols, Gorky, Rothko e, dall’altro, ai più diretti compagni di risonanze di fronte alla natura, Chighine e Fasce, Guenzi e Lavagnino, Repetto e Raciti. Solo per fare alcuni nomi più prossimi al modo di concepire l’immagine come interrogazione interiore, transito di forme sempre esposte alle mutazioni del viaggio alle fonti dell’invisibile.
(in catalogo della mostra Luiso Sturla, Studio d’Arte del Lauro, Milano, novembre - dicembre 2009)
Gianfranco BrunoCome tutti i migliori artisti della sua generazione, Sturla ha ben presente la difficoltà in cui si muove una pittura che, mantenendo il suo originario legame con una tradizione di qualità e di poesia, intenda comunque riportarsi all'attuale, contraddittoria realtà. Non si fa questione, naturalmente, di figurativo o astratto: ma questa pittura, essendosi ritirata su quella situazione espressiva che Arcangeli definiva "prepolitica", facendo appello a quel residuo, estremo rapporto con il mondo che un alfabeto di segni superstiti all'azzeramento, nell'opera, delle antiche relazioni visive con l'esterno garantisce, ha interrotto anche ogni legame con il sistema di immagini di cui si nutre la contemporaneità, e molta parte dell'arte d'oggi. Ripiegando su di una misura espressiva assolutamente autentica perché basata sulle essenziali pulsioni dell'essere, i pittori informali riportavano il processo creativo alla pura individualità. Diveniva anzi, la separatezza, condizione essenziale in un progetto di esprimersi che equivaleva al ritrovare un senso alla coscienza smarrita di fronte all'assurdo del mondo. In Sturla, di cui è apprezzabile la continua oscillazione, il dubbio continuo tra natura e struttura, tra universo organico e ordine propositivo, l'universo dei segni aveva un'inconsueta ampiezza: le fonti della sua cultura rivelavano un iniziale malessere, di cui tutt'oggi egli è partecipe. E non era un fatto costitutivo, una semplice incertezza psicologica, ma un vero e proprio dato di poetica per un artista che non sapeva essere estraneo all'inquietudine contemporanea. Se l'ampia trascorrenza dello spazio impressionista, l'infinito organico dello stagno di Giverny, offrivano all'artista la promessa di un universo da esplorare - e avrebbe significato ritrovare una coscienza dell'essere, sia pure separata, sia pure proiettata nel mito di un mondo che non è più - la perentorietà di un gesto, strutture quali sbarramenti dello spazio più in negativo che in positivo affermanti la volontà d'essere nel presente, aprivano ipotesi di consapevolezze senz'altro più dure, ma certo più radicate nella condizione collettiva. Così esperienze di scontro e di tensione, come quelle di Kline, o di Pollock, avevano mostrato che si poteva andare oltre un mondo perduto alla pittura come oggetto, per affermare un essere, e un'immagine, che distrugge e costruisce: ipotesi di struttura appunto, come trame in cui l'uomo naufrago ritrovasse se non un senso definitivo, il tracciato almeno di una coscienza che oppone un ordine al vuoto dilagante. Per questa strada il percorso dell'artista è andato in questi anni, senza trascurare l'origine. In un pittore come Sturla, nato all'immagine su di un'attitudine prevalentemente contemplativa, il legame con l'organico non avrebbe mai potuto essere completamente reciso. Era inerente alla qualità stessa della sua pittura, al modo di esporre il colore-materia, di innervare i segni nelle paste pittoriche. Oltre che concettualmente fondamentale: perché l'organico ha rappresentato la primitiva soluzione del pittore di fronte all'impossibile impresa di rappresentare il mondo. Sturla dunque ha mantenuto sulla sponda organica la sua pittura, ma immergendo i segni del suo istintuale rapporto con luci e forme di natura in un continuumentale - in termini di immagini si dice spazio - in cui essi sono entrati in collusione con altre luci e altre forme. Si avverte così come un segno o una luce, pur portando indelebile il segno della loro origine dall'organico naturale e pittorico, assumano l'ambigua parvenza di presenze provenienti da un sofferto scandaglio entro le più profonde regioni della mente. E come vi sia lo sforzo di ribaltare ciò che affascina come oggetto di contemplazione, in uno spazio in cui ogni presenza assume il valore di un'inquieta interrogazione. Nel suo anelito ad uscire da una dimensione puramente contemplativa la pittura di Sturla rivela la sua più decisiva attualità. Non di superamento dell'informale si tratta, ma di attualizzazione degli strumenti di scandaglio diretto che quell'esperienza in modo insuperabile ha fornito. È come se l'immediatezza informale, l'essenziale rapporto tra l'essere e l'esprimersi propri alla pittura di gesto e di materia, venissero trasportati in quello spazio rarefatto e privo di consistenze materiali che indica il luogo mentale ove si affacciano barlumi dell'inconscio. Così l'immagine attuale di Sturla appare impostata su di uno spazio dilatato e sfuggente, fatto di luce diffusa, e tenue di materia. I segni incidono presenze, tracciano talora ampi percorsi di struttura a trattenere il fulmineo manifestarsi del bagliore che ha originato la visione. Il contenuto di tali immagini è l'impossibilità stessa per la pittura d'essere altro che la propria sostanza poetica, fatta sull'indiscindibile unione di organico naturale e pittorico e di organico psichico. Nella sua insistenza ad essere testimonianza del persistere di una tensione verso la propria essenza fantasmatica, anche quand'essa appaia minacciata da troppe invadenze che le impediscono di prendere corpo sulle apparenze del mondo, la pittura di Sturla, senza negare se stessa e neppure la propria origine, s'affaccia dubbiosa sul vuoto, ad essa oppone il barlume dei gesti e della luce ai quali è affidato l'intimo suo significato umano e poetico.
Elisabetta Longari, "Réverie"Per la pittura attuale di Luiso Sturla sembra non esserci termine più appropriato del francese rȇverie, che indica qualcosa di simile e contiguo al sogno (rȇve) ma da esso diverso, non completamente sovrapponibile e coincidente. Rȇverie marca una sospensione della coscienza, una discontinuità rispetto allo stato di lucidità; designa piuttosto un regime ibrido tra veglia e sonno, uno stato psichico vagamente ipnotico in cui si manifestano numerosi sorprendenti fenomeni, correntemente definiti come "sogni ad occhi aperti". Rȇverie nomina dunque una materia particolarmente sfuggente, una condizione ambigua in cui si è spettatori e autori nello stesso tempo: Luiso a sua volta, prima di fissare queste apparizioni, le ha "trovate". La Rȇverie, cara a Bachelard, è descrivibile anche come una particolare attitudine al volo, resa possibile a partire da un indebolimento della sentinella della coscienza che consente alla psiche di procedere per libere associazioni. L'ego è dimentico di sé, e assiste al farsi delle immagini. Sembra che sulle tele di Sturla si depositi il precipitato di questi voli: come su una carta moschicida, vi restano intrappolati i souvenirs portati indietro da siderali distanze. I quadri trattengono quel qualcosa che rimane una volta di ritorno alla realtà da ognuno di questi voyages autour de la chambre. I colori favoriscono la sensazione che le forme in essi enucleate non siano altro che impalpabili simulacri dalla materia eterea e al tempo stesso dall'incomprensibile concretezza della rosa della poesia di Coleridge, che ha incantato molto lettori a cominciare da Borges. Le cose non esistono quasi più, allontanate e smaterializzate come frammenti fluttuanti e corpuscoli annegati nell'ambra. Resta un grumo, il pensiero emotivo di un'immagine. Ma di quale pensiero si tratta? Non del pensiero dell'autore e neppure di quello dell'osservatore, piuttosto un flusso, una corrente che passa tra il primo e il secondo, favorita e condensata dall'immagine. I colori indecisi, macerati nel vino e immersi in acque ombrose, distillano squisitezze e veleni. A volte sfavillano come pietre preziose sparse qua e là, ma più spesso sono castigati: un grigio perla, un rosa antico e un celeste sfatto, i toni di una tavolozza decadente come di ortensie recise che seccando scolorano in gradazioni polverose. Forse nelle recenti scelte cromatiche di Sturla affiora inconsapevolmente il ricordo del giardino ligure della madre. Nella sua pittura è evidente che arte e vita sono vasi comunicanti: reminiscenze artistiche si mescolano a ricordi personali, tutti quasi irriconoscibili, amalgamati in una diffusa atmosfera sentimentale. Il potere delle forme viene da altrove, o forse soltanto dal fascino che esercita sempre ciò che è dubbio, vago, quasi velato, incompiuto. Sembra di guardare attraverso un quarzo. Le immagini, allontanate dalla bruma e tinte di nostalgia da luci crepuscolari, come ombre che improvvisamente baluginano in un bagno turco,sfumano in diafani vapori madreperlacei oppure si frantumano in miriadi di riflessi azzurrognoli. In entrambi i casi, le cromie ricordano tanto l'iridescenza delle ali di una libellula quanto certa pittura settecentesca da Boucher a Tiepolo (ma perché non arrivare fino a Renoir?). Le superfici, prevalentemente esangui e sfatte, a tratti si organizzano in partiture più definite, in strutture "a tasselli", memori forse dei ritmi compositivi di Morandi e di Sironi, ma completamente intrise di luce. Il tessuto della pittura di Sturla, ricco di humus, nasce in un clima che ha come sfondo il ricordo o il sogno della stagione informale, ma, lontano da qualsiasi nostalgico tentativo di rivitalizzare un linguaggio e un sentire legato al passato, è anzi attore di uno scenario rarefatto, mitigato da luci che annacquano, sbiancano e "bruciano" le immagini e da ombre che le confondono e cancellano. La tela è un filtro, non più un'arena. Un filtro calamitato che attrae verso di sé cortei di indizi, congetture, ipotesi, larve di pensiero e detriti di desiderio. Sturla si è fatto da tempo pittore restio e pudico, che non dichiara mai tutto, forse assecondando un tratto del suo carattere o della sua provenienza ligure (penso alla reticenza della pittura di Scanavino). Le sue tele lasciano che si faccia il vuoto, un certo vuoto che mantiene i rari elementi isolatamente a galla su un oceano inquieto di rumori di fondo. La dolcezza e la lentezza della luce, che a tratti come assopita, incorpora e sprigiona cose appena intraviste o forse solo intuite, fanno di Sturla un pittore della latenza: le sue forme sembrano scivolare inespresse, come se ancora non fossero o invece già sul punto di non essere più. Labili presentimenti di forme o antiche impronte sul punto di cancellarsi. Ma in Sturla niente nasce e muore per intero. C'è sempre un doppio fondo. Tele spurie, cariche di potenziali di vita, ricche di risonanze e disseminate di tracce materiali di fantasmi e di vestigia; tele la cui complessità è evidenziata dalle numerose coppie di opposti in esse contenute, tra cui giocano un ruolo significativo opacità e trasparenza: sono tutte visioni luminosissime che eppure contengono un'irriducibile resistenza d'ombra. Sembra di vedere per qualche istante un "non so che" agitarsi bramoso di avere consistenza piena, si percepiscono una serie di forze che si accalcano e premono "dietro", chiamate in causa attraverso ciò che è esposto alla luce. La pittura di Sturla, come una fiamma racchiusa in un vaso d'alabastro, per la sua immanente evidenza e per la sua naturale inaccessibilità, assomiglia nella sostanza all'in/consistenza della vita. (in catalogo della mostra Rȇveries, Galleria Cristina Busi, Chiavari (Genova), 2007)
Stefano CrespiMotivo di rinnovata attenzione è la mostra che viene dedicata all’opera di Luiso Sturla nello spazio espositivo di Agoràrte. È vero che siamo immersi nella continua mutazione. Ma questo tratto di geografia a Milano, tra la segreta, aristocratica via del Carmine (dove è situata la Galleria) e via Brera rimane come la fotografia di un tempo un po’ indimenticabile: incontri, emozioni, figure irripetibili di letterati, di artisti. È sempre difficile trovare quelle motivazioni che rispondono alla condizione espressiva di un artista, al senso di una mostra. Per Luiso Sturla basti riguardare in un catalogo le notizie biografiche, e ci si trova improvvisamente davanti a un percorso artistico che ha più di cinquant’anni (la prima mostra personale è a Milano nel 1954). Un percorso artistico che attraversa l’orizzonte di questi decenni: tra l’origine ligure e Milano, tra Italia e un soggiorno in America, tra astrazione, informale e il delinearsi di una propria originale espressione. Con tutto il portato che c’è nello scorrere dell’esistenza: passioni, affetti, apparizioni che hanno già vocazione di ricordo, le luci, ma forse più struggenti le ombre dei congedi. Siamo davanti a una pittura che non si affida a sigle affermative, a tipologie, a declinazioni empiriche; ma esplora la vita negli oggetti e nelle intermittenza, nelle evidenze e in un lascito più misterioso. Accostandomi all’opera di Sturla lungo gli anni, riguardando i cataloghi, mi si è imposta una suggestione a cui non saprei rinunciare. Una suggestione non astratta che nasce da un rapporto vivo, e potrebbe rappresentare uno stimolo, una cifra e modalità di accostamento a una pittura tra immaginazione e forma. L’occasione viene da due titoli di mostre dedicate a Sturla. Titoli apparentemente in contraddizione. Suggeriscono invece simultaneamente, con linguaggio di poesia, il tempo e lo spazio di questa espressione artistica. Nella mostra del 2004 in questa Galleria il titolo del testo di Elisabetta Longari era Verso l’azzurro, colore che davvero rappresenta l’atto continuamente generativo e poetico di questa pittura. In una mostra del 1999 allo Studio Centenari di Piacenza al mio testo di introduzione in catalogo davo il titolo Verso la forma bianca. Ecco, il sentimento dell’azzurro e la pagina bianca sono la pittura di Sturla, nella vibrazione sensibile che continuamente si rinnova, si allontana, ritorna: in quella circolarità di ogni fatto poetico che acutamente attraversa la modernità, ma non può essere “moderno” perché ritorna all’origine, al desiderio, all’assenza, all’ombra. Di mostra in mostra, di catalogo in catalogo, possiamo ritrovare un movimento, una coscienza più avvertita. Ma in fondo questa pittura esula da situazioni storicistiche. È il fascino di quadri dove ci riconosciamo nell’evento inafferrabile del tempo: oggi nell’epoca mediatica dell’annullamento temporale. L’azzurro e il bianco non sono qui da intendere in una evidenza puramente sensoriale: appartengono a una sintassi del linguaggio, sono un gesto linguistico che segna una biografia interiore, una visione della pittura. Nell’impaginazione di una mostra l’azzurro appare certamente come il connotato riconoscibile della sua pittura, a maggior ragione e più sintomaticamente nella riflessione di oggi dove il tempo si estenua, “implode nell’attualità”, si declina nella sparizione e nella tautologia. C’è un pensiero poetico di Sturla che bene illumina, quasi in una cifra riassuntiva, il senso, il puro richiamo della propria espressione: il tempo, il viaggio, il mare, la vita e “tanto blu...sempre”. L’azzurro, in una accezione quasi di postulato, definisce il blu del cielo. Evoca il celeste, il luminoso, il notturno. Attualizza un colore che racchiude e contraddice i colori, riassume e combatte la luce; esalta e rifiuta a un tempo la pittura. Più che una modalità di colore, l’azzurro è una distanza, un sogno, la metafora di un oltre, di un viaggio. Il problema linguistico dell’azzurro si presenta diversamente per il poeta e per il pittore: cambiano i codici, diversa funzione hanno gli oggetti poetici rispetto alle metafore visuali. La tradizione poetica ha finito per identificare l’azzurro al di là dell’azzurro del cielo. I pittori che agiscono all’interno degli elementi specifici dell’arte, le forme, i colori, non necessariamente usano l’azzurro per evocare l’azzurro. Nella mia esperienza, tra arte e poesia, mi è sembrato di ritrovare via via un registro iconografico dell’azzurro davvero affascinante. C’è un volume splendido dal titolo Azur pubblicato nel 1993 dalla Fondation Cartier a Parigi. Indimenticabile rimane la visita a una mostra Galerie Beyeler di Basilea, Magisches Blau (Magico Blu), nel 1993. Nell’esonero svizzero dai simboli (dal cielo) mi sono trovato, in quella mostra, davanti a quadri di de Stael, Rothko, Klein, Fontana; persino un Paesaggio a Stampa di Alberto Giacometti dove l’azzurro era quasi rappreso in un grigio di assenza luminosa. La pittura di Luiso Sturla è originalmente e inconfondibilmente in una sorta di catalogo ideale e di commozione dell’azzurro. Tutto può entrare in un quadro, nella sua pittura,: la madre, un tratto d’infanzia, il giardino, il fiume, il mare, il gabbiano, il vaso, un fiore, una rosa, la lettera, la luna, l’ombra di un ricordo, della figura femminile. Tutto diventa avvicinamento e addio, specchio. Tutto diventa, come in una sottile nevrosi, azzurro. Tutto diventa una Stimmung: uno stato di grazia, di malinconia, di assenza. Il senso del tempo che segna questa pittura non è una nozione astrattamente cronologica, ma è “durata”, memoria, in una inclinazione di leggera allucinazione. Con il suggerimento di qualche testo della critica francese, non è letteralmente la biografia che entra nell’esperienza artistica, ma è l’io della pittura, della scrittura (il sentimento straordinario dell’immaginazione) che invera eventi apparentemente minimi: immagini, frammenti del visibile, moti del cuore diventano allora segnali, cifre, emblemi di una storia più vasta e in qualche misura destinale. Si vedano in questa mostra alcuni quadri che hanno l’indicazione del bianco. Nello studio di Sturla che allora era nella periferia di Milano, a Vimodrone, il primo quadro su cui si era posata la mia attenzione era proprio Verso la forma bianca. Rispetto all’azzurro del cielo il bianco è la forma mentale: inizio, termine, primordio, enigma, vuoto assoluto. Se Proust è la malattia del tempo, Mallarmé è il paradigma del bianco. Il bianco è il testo intraducibile, libero dal rito dei significati, delle interpretazioni, della memoria. La pagina bianca è il silenzio del cielo: uno spazio senza eco, in un mondo annullato, privo di oggetti e di voci, senza colore, senza la suggestione del tempo. È importante sottolineare come in Sturla sia presente, con il battito del sentimento, la polarità appunto di una grammatica (che è linguaggio, geometria, forma, libro stesso dell’esistenza). Osserviamo i suoi quadri. Si definiscono entro un ritaglio dello spazio. A volte si tratta dello schema di una finestra, di una porta. È il bisogno di fermare, definire una forma nell’informe, nella perdutezza stessa dell’esistenza, del mondo. Certo non dobbiamo dimenticare in Sturla il connotato geometrico negli anni iniziale di adesione al M.A.C. Ma a conferma del procedimento espressivo, si possono richiamare personalità grandi e assolute. In altra occasione per Sturla ho avuto modo di richiamare lo schema spesso rettangolare con cui contorna il quadro. L’immagine, nel quadro di Sturla, non è un “ritratto”, ma di più, l’ossessione interna di un volto, di uno sguardo, di un tempo indecifrabile. Si possono osservare in Sturla alcuni quadri che genericamente chiama Frammenti. Qui pare di ritrovare lo schema strutturale di una scansione a zone che ha la forza espressiva del ritmo, dell’iterazione. Si mette in moto lo svolgimento della pittura nella interna dialettica delle sue polarità: il bianco e l’azzurro, la geometria e la delicatezza, la misura ideale ma anche le incrinature o quel varco umano che è lo scatto intimo di una “sgrammaticatura”. In qualche richiamo esemplificativo dei testi critici per Sturla potremmo menzionare “segno e poesia” (Roberto Sanesi), “organico naturale” e “organico psichico” (Gianfranco Bruno), “l’intuizione del cuore e l’equilibrio della mente” (Simona Vigo). Potremmo indefinitamente continuare lungo questa direzione nel senso della notte e del giorno, della volontà e dell’abbandono, del maschile e del femminile: il maschile è il codice autoritativo della scrittura, il femminile è il perpetuum mobile dell’esistenza inafferrabile che appare e svanisce. Entro una riflessione complessiva, si può notare come lo svolgimento, vario ma unitario, di questa pittura intuisca e porti dentro di sé alcune tematiche suggestive che attraversano la contemporaneità. Le enunciamo come si sono rivelate nell’accostamento ai quadri. Possono costituire idealmente i percorsi entro questa pittura: il viaggio, la malinconia, la scrittura, lo sguardo. Per il viaggio c’è anzitutto la ricchezza delle carte. Il quadro, si sa, nei suoi aspetti strutturali e compositivi, si stacca criticamente dall’autore, entra nei suoi significati e nelle sue dimensioni culturali. La carte è più diario, variazione, vitalizzazione esistenziale. La carta appartiene al significato del pittore. Dall’occasione al simbolo, e dal simbolo al “tempo perduto”, la pittura diviene la continua metafora del viaggio. Viaggio della vita, dell’esistenza, delle cose stesse nella loro allucinatoria, estranea presenza: tra movimento del cuore, e inabitabilità del mondo, e gesto della pittura. L’arte, la letteratura, la musica conoscono il grande tema della malinconia. Il tempo si disaggrega tra immaginazione dell’anima e la realtà, tra immagine definita e la sua raffigurazione luttuosa. Si susseguono nella pittura di Sturla i temi della reverie:, dell’assenza, del “sentimento lunare”, dell’anima tristis nella sera, dell’ombra. Ricordiamo l’ombra montaliana su uno scalcinato muro, ricordiamo il mistero dell’ombra nelle piazze di De Chirico. L’ombra che ricorre in vari titoli dei quadri di Sturla diviene il tempo altro della pittura: un tempo senza “immagine”, senza verità, senza prova, senza maschera e senza affermazione, libero da qualsiasi centro. Nell’iconologia dei quadri appaiono tracce di scrittura. Sono lettere dal mare, messaggi, pensieri notturni, alfabeto del cielo. Potrebbero essere, con un suo bellissimo titolo, il volto dei ricordi. A volte sono graffiti di una citazione, di una poetica, di un testo (in una sua carta vedo una riscrittura di Mario Luzi). Spesso si ha modo di riflettere sulla contemporaneità dove le parole sono state consumate, la pittura è stata dipinta, dove sembra aver fine il “viaggio” nella caduta dell’evento, nella fine del simbolo. Qui, nei quadri di Sturla, le parole sono reciprocamente degli iconici, pittorici: si autorappresentano, sono movimento espressivo, calligrafie senza codice nei deserti della memoria. Infine un’altra tematica nella pittura di Sturla (ed esplicitamente confermata da qualche suo titolo) è lo sguardo. Rispetto agli imperativi degli oggetti, dei linguaggi (degli “occhi”), lo sguardo è il luogo del ricordo, dell’epifania, dei tracciati senza storia: dell’evento, ma anche dello sfondo del silenzio, di ciò che non è stato vissuto.
(in catalogo della mostra Distanze segrete, Galleria Agoràrte, Milano, novembre 2006 - gennaio 2007
Simona Vigo, "Distanze segrete"Luiso Sturla: un pittore di luce e di ombre, di grandi superfici e di minuscole, poetiche carte, curate nei dettagli, a volte realizzate con materiali improvvisati che ci giungono come versi di sole nella nebbia. Protagoniste inedite di questa mostra che ripercorre i lavori degli ultimi cinque anni, sono i capolavori in miniatura che arricchiscono questo percorso rigoroso e poetico allo stesso tempo. Luiso Sturla si esprime sempre con coerenza nonostante la versatilità dei supporti su cui dipinge: a partire dalle grandi tele, superfici di mare in cui è inciso un alfabeto fatto di lettere e piccole creature, che quasi catturano frammenti di cielo - non esiste mai un confine così definito tra l’azzurro del mare e quello del cielo, tra le creature acquatiche e quelle dell’aria. La luce che penetra nel mare lo trasforma in cielo e ugualmente annega il cielo nella profondità del mare da cui emergono brandelli di lettere stinte con parole appena riconoscibili. Parole che da lettere diventano immagini che donano significato al contesto pittorico in cui sono inserite abbandonando il loro senso originario. Luci che si accendono al tramonto in atmosfere paludose e quiete, custodi dei ricordi del fiume, di esserini minuscoli che popolano la pittura di piccoli battiti di ali diafane, piccoli sospiri rivolti alle stelle. E le ombre, come sempre, compaiono avvolte nella luce o nell’oscurità, come creature predilette nell’immaginazione del pittore di poesie. Le ombre delle memorie che hanno perso la loro consistenza materica, ombre umane, generalmente, ma pure ombre animali, di insetti o di pesci, impronte preistoriche che indicano la presenza dimenticata dell’uomo come in alcuni lavori dal titolo “sedimentazioni”, miniature di un’opera magna in cui l’artista mai perde la continuità del segno e del contenuto: “Così nel grande, così nel piccolo”. Il principio pittorico rimane uguale a se stesso. Le carte dei bozzetti preparatori diventano opere compiute in cui egli si esprime con la stessa ispirazione e dedizione con cui lavora sugli oli di diverse dimensioni. Certo la pratica dell’olio su tela e i quadri medio - grandi richiedono una diversa energia gestuale, una maggiore concentrazione sul racconto e sul lavoro pittorico in senso tecnico, rendendosi il luogo adatto a certi intimi confronti. Ma il talento magico dell’artista consiste nella capacità di mantenere il medesimo slancio immaginativo nel grande e nel piccolo e nel non creare rotture a meno che non si tratti di un’operazione voluta e funzionale all’avanzamento della sua attività produttiva. A distanza di anni Luiso Sturla continua il suo lavoro di sperimentazione e di ricerca, concentrandosi sulla memoria, sul racconto, procedendo ad una progressiva trasmutazione della realtà attraverso la luce che invade la tela creando immagini che appartengono più alla trasfigurazione onirica del sentire che al contenuto manifesto della realtà. Ecco allora che i bianchi diventano protagonisti insieme a queste piccole carte di una dimensione della distanza, dalla temporalità che consente di entrare nelle stanze segrete della memoria. Spesso i lavori di questo pittore sono caratterizzati dalla presenza di soglie che possono proporsi come immagini di una porta o di piccole finestre disposte in un unico lavoro. Le sue opere sono un invito gentile, talvolta più enfatico altre più garbato, ad attraversare questa soglia che ci permette di assaporare l’immaginazione legittimata dall’esperienza estetica. (in catalogo della mostra "Distanze segrete", Galleria Agoràrte, Milano, novembre 2006 - gennaio 2007)
Germano Beringheli, "Le pulsioni romantiche di Sturla"Luiso Sturla - tra gli artisti della nostra regione uno dei rari pervenuti alla notorietà nazionale e internazionale per l’accoglienza sensibile e rivelatrice, nei suoi quadri, del paesaggio e delle sue sfumature - espone, ora, dipinti a Albissola dove, per altro, interessato alle qualità visive e vibratili del colore, ha realizzato suggestive ceramiche. Il suo curriculum (fitto anche di eccezionali esposizioni in alcune delle principali gallerie italiane e straniere), segnala, con gli studi a Genova e a Torino, la vitale partecipazione, nei primissimi anni cinquanta del secolo scorso, al M.A.C., Movimento di Arte Concreta, e , nel 1960, dopo aver attinto alle più importanti sperimentazioni francesi e italiane dell’arte informel, una lunga permanenza a New York. Per cui se si vogliono comprendere appieno i sensi interni dei processi percettivi ed espressivi dell’artista ligure/lombardo (e il suo graduale passaggio da una pittura che ha radici nel Concretismo ad una pittura “naturalistica”, fitta, oltre che di pulsioni primigenie, di lievitazioni impressionistiche, analogiche e emozionali, nutrite di epifanie visionarie e, pure, di apparizioni prossime a un immaginario figurativo) è più che opportuno tener conto della fusione tra le componenti formali, luminose e cromatiche europee e quelle dell’action painting nordamericana. Di fatto l’evidente pregnanza materica dell’astrazione franco - italiana e la complessità dei segni gestuali e affermativi dell’espressionismo astratto statunitense hanno rinforzato la personale ispirazione di Sturla che ha accolto la naturalità ligure nella sua ineffabilità simbolica, nel lieve e penetrante spirito delle immagini suscitate dalle emozioni e dalle sensazioni. Pertanto l’assorta intuizione delle corrispondenze tra le allusività interiori e lo scandaglio dei segni e del colore - luce sottolinea, similmente a ogni vera opera di pittura che ne investe l’occhio, mente e immaginazione, come e quanto il bisogno di dipingere provenga, soprattutto, dalla necessità di guardare la realtà per vedere, con l’occhio interiore, oltre le apparenze del vero. Nel corso degli anni ho visto molto del lavoro di Luiso Sturla: dai primi dipinti “concreti” che già ponevano in gioco, con estrema sensibilità formale, la luce e il colore a quelli, più fisici e gestuali, dell’esperienza “americana”; dalle percezioni non figurative, emotive e intellettive, di marca naturalista alle più recenti inclinazioni percorse da tensioni e riflessioni affidate a un continuo pullulare di forme, di foglie e di insetti, ovvero a un brulicante universo di vita che coglie luci distese e espande di rifrangenze. Materia e colore costituiscono infatti l’immagine che rivela l’espressione di possibilità ancora inesplorate, una realtà illuminata dall’esterno e dall’interno, riverberi di cieli e di mare coniugati dal controllo della fantasia dell’artista. Penso, perciò, di poter ravvisare in ogni dipinto, attraverso il suo modo di depositare segni e colore, una sorta di enfatico atteggiamento che sorge da quella direttrice della cultura artistica che diciamo romantica. E scandirei “romantica” nella consapevolezza delle possibilità evocative di una maniera ottico - percettiva in grado di cagliare sulla tela analogiche situazioni emotive e psicologiche. (in catalogo della mostra Le pulsioni romantiche di Sturla, Galleria d’Arte Anna Osemont, Albissola Marina (Savona), settembre - ottobre 2006)
Giuseppe CuroniciLa materia pittorica è sottile, ma anche solida e tenace. Sotto una presenza raffinata e delicata, sta un senso di presenza, di sicurezza affermativa. Probabilmente è per questo che la sua delicatezza evita il preziosismo fine a se stesso: perché contiene energia e ampiezza. L’immaginazione creativa dell’artista è vivissima, in questa incessante invenzione di ritmo disteso e animato, passaggi di colore, e anche distacco e rappresentazione del vissuto. L’estensione dello spazio poteva provenire dal mare aperto davanti alla costa ligure. Ci sono cose più diversamente eguali di queste due: la distesa della pianura padana, e il campo del mare? O la parte del cielo che riusciamo a vedere? L’estensione del tempo viene dalla memoria, personale e collettiva: l’incendio, la guerra, la serenità di un bosco o di una collina. Non gli oggetti materiali fuori di noi, ma quelli che la mente racchiude dopo averli ricevuti in dono dalla vita. Lo splendore pittorico di Sturla non è ottico ma spirituale. Le immagini, il tempo e l’esperienza della vita In primo luogo, totale libertà di fronte agli oggetti del mondo. Frammenti di immagini percepite là fuori si prestano con evocazioni improvvise. Ad esempio, un lembo di paesaggio, una casa, un aeroplano che in una luce gratuita di zolfo pallido sorvola una città minacciata. L’artista racconta storie figurative o non figurative, come gli dice l’intuizione. Una casa rossa. Colline. Tutto indicato senza esibizionismi, senza virtuosismi, per accenni, non gridato ma detto. Una scena di incendio sulle colline è narrata con un terribile spaventoso sussurrio. L’intensità delle immagini dipinte è collegata agli affetti sentiti o anche combattuti nelle dimensioni della vita. Sturla dipinge un muro con una porta che si apre verso l’interno. Chi abita oltre quella soglia? Il ricordo di un fiore, alcune stelle a sei raggi, una mano, un piccolo personaggio, tracce di lettere dell’alfabeto. In un dipinto affiora il pensiero di una sedia rossa. Ma è la sedia di sua madre! La forma della sedia diventa un ideogramma estremamente serio. Al rosso possiamo attribuire tutti i valori simbolici e psicologici che vogliamo, il suo calore è difficile da descrivere. Il dipinto può sembrare raccolto in se, autobiografico; ma la notizia autobiografica è così essenziale che può essere accomunata alla vita interiore degli altri, di noialtri spettatori, suscita una partecipazione, un pensiero condiviso. Nel cuore di ciascuno di noi si trovano vecchi muri, porte, mobili di casa, colori e luci. La nostra personalità è formata dalla nostra storia. L’esperienza vissuta forma il contenuto, la sostanza interna dei nostri pensieri. Lo spettacolo iniziale di luce - colore ci offre la sua profondità esistenziale. Lo sfondo emotivo generale è il senso cosmico della realtà naturale, lo spazio luce - colore in cui esistono tutte le cose. All’interno di questo oggetto di contemplazione che ci assorbe, la pace apparente è agitata e marcata o incisa da continue tensioni psicologiche, un innumerevole formicolare di percezioni e affetti, tracce di esperienze passate, abbandoni, timori, cose ricordate: un pezzo di forma, un colore, visto con gli occhi del corpo, una luce o una penombra che l’anima vede a occhi chiusi come evocazione. Ciò conferma che l’energia pittorica delle superfici di luce - colore, non è un gioco otticale, ma è connessa a un sentimento della vita. Dobbiamo lasciare che il quadro parli da sé, che si manifesti con tutte le sue risorse interiori. Vediamo sottili vibrazioni e ampie stesure continue, e questo ci sembra un fatto ottico coloristico; ma sentiamo che la compresenza di vibrazione e continuità è già diventata qualcos’altro, è un evento emozionale, all’interno del pensiero. La calma della spiritualità non nega che esistano le agitazioni, e la meditazione non rifiuta di constatare e sentire le lacerazioni, le tempeste passionali - ma le contempla, raccoglie con gratitudine anche la sofferenza, le prove aspre della vita. Un grande spazio di mare o di pianura o di cielo, può suggerirci assieme un profondo senso di pace e ampio sgomento. Il tempo, il breve tempo della nostra vita, è ansia e aspirazione mai totalmente appagata. La vibrazione e la compattezza nella pittura di Luiso Sturla sono il correlativo pittorico, il correlativo visivo di questa condizione esistenziale di irrequietudine e pace unite. Egli afferma la contemplazione e il procedere; l’atto di accettare e amare la vita con tutto quello che ci porta o ci offre o ci scaglia addosso. Cielo, lettera, porta. Alcuni quadri sono composti sul blu, sull’azzurro. Sono cieli. In tal caso sono paesaggi. In realtà hanno l’intensità non di spazi vuoti ma di sostanze, quasi come se fossero personaggi. Sono densi come volti, come visi di persone impersonali. Il cielo è anche la casa infinita dove abita la luce. Allora il visitatore riflette e pensa: la pittura di Sturla è di argomento e contenuto cosmico, rappresenta lo spazio universale. Verissimo. Tuttavia questo mettersi davanti allo spazio e guardare il vasto “Laggiù” colorato è soltanto un lato del discorso, quello rivolto verso l’esterno. Si può affermare altrettanto bene che è una pittura lirica, perché le vibrazioni e sfumature dello spazio - colore sono un fatto di percezione non soltanto sensoriale ma emotiva. Il “Laggiù” è senza fine, come le nostalgie e le aspirazioni del cuore umano. Per concludere, come sempre nel lavoro artistico, la soggettività - interiorità dell’artista è realmente in pubblico, è un atto di colloquio con gli altri. Ognuno può avvicinarsi e identificarsi, e dire: è un fatto mio, mi riguarda. L’arte è anche comunicazione. A volte i titoli ci aiutano a capire, con la loro intensità poetica. Ombra in un giardino perduto. Il volto dei ricordi. Il nido dei ricordi. Natura in fiamme. Luce e interno. Lettera dal mare. Lettera sulla porta rossa. Misteri sulla porta rossa. War 2005. Pensiero per la signora Etna. Rosa nella sera. Il senso narrativo dei quadri è percepibile anche senza i titoli, ma le indicazioni verbali accelerano la nostra comprensione. Quante volte ricorre la parola Lettera, la parola Porta! Sono quasi sinonimi: significano passaggio, comunicazione, ma anche mistero. La porta da varcare è quella delle emozioni. Anzi, forse conduce al senso della vita, a tentarne - forse - una decifrazione. Sentiamo la presenza di qualcuno a cui il pittore si rivolge con affetto. Intravediamo un segnale. Il pittore raggiunge la meta, qui dove le vicende del diario individuale diventano una comunicazione fraterna. Gli aneddoti ricordati per accenni, la matericità assottigliata, la percezione coloristica, il dosaggio sapiente della luminosità, trasformano non solo le porte, ma perfino i muri, in oggetti immateriali.
(in catalogo della mostra Luiso Sturla - Tempo e colore nella pittura, Galleria d’arte La Colomba, Lugano, febbraio - marzo 2006)
Mary Barbara Tolusso,Non è facile avvicinare le opere di Luiso Sturla. L’immediato ci suggerisce un approccio piuttosto lirico, saremmo tentati cioè di affidarci semplicemente a un luogo di evocazioni poetiche, un rivelarsi armonico, quasi musicale. Eppure rimane una “dissonanza”, uno scarto che ci lascia mutilati, qualcosa che ha a che fare con un’amputazione emotiva. Rispetto allo spazio matematico, lo spazio artistico trasforma infatti direttamente la nostra intuizione interna in forme tangibili. Ma le “forme”, nel caso di Luiso Sturla, e nell’occasione delle opere esposte alla Galleria Rafanelli di Genova, ci riportano alla memoria la lezione di Domenico di Piacenza, per quanto possa sembrare paradossale inserire in questo contesto le formule del più celebre coreografo degli Sforza e dei Gonzaga. Domenico enumera sei elementi fondamentali dell’arte: misura, memoria, agilità, maniera, misura del terreno e “fantasmata”. Quest’ultimo ci interessa e va inteso come un arresto improvviso fra due movimenti, tale da trattenere nella propria tensione interna la misura e la memoria dell’intera serie coreografica. In tal senso l’immagine mnemica è sempre carica di un’energia in grado di muovere (o turbare) il corpo. Per il coreografo - filosofo quindi la danza è essenzialmente un’operazione condotta sulla memoria. Il luogo del danzatore non è tanto nel corpo, bensì nell’immagine carica di memoria e energia dinamica. Con una semplice equazione inversa potremmo definire anche così una delle formule di Luiso Sturla. L’immagine che ci investe non è cioè dettata dal movimento del pennello sulla tela, inteso come segno in uno spazio, ma piuttosto dalla memoria e dall’energia dinamica che esso trattiene: ovvero dal tempo. I grumi, i segni adagiati, le scalfiture leggere, tele come Ossido e stelle, La porta rossa, Il nido indicano sempre dei punti di “entrata” e di “ uscita” temporali, “non luoghi” più o meno inquietanti, pur nel gioco armonico dei colori, più confortanti se esiste un’ulteriore mediazione dialettica come in Pensiero per la porta rossa o Pensiero per un quadrifoglio dove gli enti non sono “evocati” ma citati (se pur in basso a sinistra) come piccoli ingressi di una reminiscenza, però rivelata nella sua interezza. È questo un aspetto potentissimo di Luiso Sturla: l’offrire un momento di fissità assolutamente dinamica, che non ci consenta una totale definizione. Come nel “danzare per fantasmata”, la vita delle immagini non consiste nella semplice immobilità né nella ripresa del movimento, ma in una pausa carica di tensione fra questi. Non a caso, forse, i quadri ci restituiscono un’oscillazione irrisolta fra una presa di coscienza e un nuovo evento di senso. Il tremito leggero, impercettibile, oppure l’amalgamarsi della materia, le colate vaporose che pendono sullo spazio come un vetro sulle lancette del tempo, ci consentono un breve istante di pieno possesso delle forme, un attimo di intermittenza, come direbbe Proust, in cui sembra agire anche una memoria volontaria capace di regredire a realtà primordiali, originarie, grattifiche. I simboli di Sturla, gli oggetti presi a prestito dalla rievocazione, che siano figure oggettive o paesaggi emotivi, le diverse porte e finestre temporali, compiono una sorta di salvezza dell’eredità di una natura mitica. Non si tratta di affidarsi a superate tesi romantiche (già Baudlaire ci insegnava che non era più possibile cantare la luna nell’epoca dei lampioni a gas). Ma Sturla riesce a ideare comunque una sostanza - natura carica di senso, addirittura eccessivamente vivace (Ossido e stelle potrebbe essere una sorta di catastrofe del ferro, di incipit degli elementi...), la cui meraviglia nasce non per la familiarità che pare evocarci, bensì a partire dallo sconcerto per l’estraneità rispetto a quel “passato naturale”, di una natura che ci viene appunto restituita in un preciso contenuto storico della coscienza. Questo riapparire è elemento fondante dello spaesamento, quasi il riaffacciarsi di una simbolica natura pagana (proiettata in fossili, paesaggi palustri, luce che restituisce lo spettro delle stelle, neri, rossi e viola, turbini cupi e bianchi...) in seno a una natura completamente spiritualizzata e civilizzata. L’empatia (la stessa armonia potremmo aggiungere) è quel ritorno al naturale, secondo forme d’investimento della coscienza che ovviamente non possono essere che storiche. E se il mito si trasfigura in un simbolo estetico, il contraccolpo non può essere che una sorta di “mutilazione”, di consapevolezza della perdita armonica, potenzialità che Luiso Sturla riesce a evocare anche lì dove ad agire è una memoria personale, intima, tramite una grazia aurorale, a un eccesso, per così dire, di implosione armonica. È come se certa “tragicità” turneriana fosse filtrata dai graffiti di Twombly, che nell’occasione sembrano avere il preciso compito di ridurre la “caduta”, l’impatto emotivo. La percezione si trova di fronte a una sproporzione, a un’eccedenza che riflette nel soggetto osservante il luogo del suo stesso mancamento. È un’impressione già percepibile nell’atelier di Luiso Sturla, per chi avesse avuto l’occasione di visitarlo, nell’impatto sensibile di forma e colori, nella visceralità e nell’incantamento di un abbandono al demone di un linguaggio che ci assorbe e restituisce una “differenza”, in termini di perdita, quella tra natura e cultura per esempio, che possiamo anche intendere quale scarto tra natura e civiltà (ovviamente passando attraverso una mediazione culturale, l’arte); ed è sul terreno di questa differenza che Sturla ci conduce, quasi un procedimento di estensione e contrazione, andata e ritorno nella collisione emotiva della materia. La densità cromatica, le figure simboliche, i poli (gli ingressi) magico - mimetici, ogni dispersa geometria, i sedimenti più arcaici dell’immagine ci permettono di essere accolti nella loro dimensione di memoria, entro un nucleo di massima intensità al punto da evocare quei ritorni che in greco suonano come “nostoi”. Non si tratta tuttavia di pura invocazione nostalgica. Niente di tutto questo. Piuttosto Sturla è in grado di farci vedere, di comunicarci fino a che punto si possa vivere come “assenza” il principio di un’armonia cosmica in seno alla disanimata spiritualità moderna.
(in catalogo della mostra “Luiso Sturla, dipingere per “fantasmata”, dinamiche della memoria, Galleria Rafanelli, Genova, ottobre - dicembre 2005)
Alberto Pellegatta,L'identità specifica della pittura risiede nella materia, nei colori, nel modo in cui la complessità del mondo sprofonda nell'impasto sapiente, per cui le cose riaffiorano più "vere" di come sono nella realtà, rimodellate e "rifondate", alla deriva in un magma di storie e di figure, che si depositano su un fondo sfuocato, fuori fuoco, eppure al centro della scena. Il fondo di un'"estasi naturale" (Sanesi). Luiso Sturla, grazie forse alla propria esperienza, che attraversa la storia del Novecento dall'astrattismo all'informale, all'espressionismo, fino a questa quiete feriale, agli spazi pacifici dove tutti gli affanni si sospendono e dove le cose dipinte depistano lo spettatore, si disperde nelle ambigue suggestioni di un segno non descrittivo, ma potentemente emozionale, proiettato oltre il Novecento. Sembra passare dallo specchio al video, all'interfaccia. In questi luoghi di meraviglia, mossi come al rallentatore, dissolti eppure assolutamente presenti, si innestano gli eventi, si innervano i particolari di una vita vegetale e umana. È così che i gesti gratuiti ma necessari della memoria irrompono nel quadro della mente. La realtà è rivertebrata dall'interno. Negli spazi più recenti, in queste terre ricordate e rifondate, luoghi fisici e insieme luoghi dell'immaginazione e della mente, il pittore recupera l'immagine senza mai nominarla. L'incanto della fiaba nel gesto e la suspense del colore fanno di Sturla un pittore di fantascienza, poiché all'attenta osservazione della natura risponde una pittura sempre "immaginata" nello studio, senza fotografie. È forse per questo ritrovare il mondo dentro di sé, per questo indagare la profondità dei paesaggi sommersi nella mente, che Sturla è giunto presto al concetto di caverna, di primitiva sede dello spirito, di cavità dove i nostri remoti antenati testimoniavano la loro esistenza, e su cui l'artista incide oggi le cifre del nostro mondo e l'eterna pazienza degli affetti. Dalle prime tele "cattive", in cui la materia si concentra ferocemente in grumi che si fanno magma e brace, si arriva, attraverso tutti i gradi dell'amore e del disincanto, al fumi lirici che custodiscono le storie, nascoste negli angoli dei paesaggi o accese come schermi alla deriva. Il progetto è preciso e procede in quella spoliazione, in quel prosciugamento, che crea una pittura scarna e asciutta, elegante e controllata, ariosa e intermittente. Nei suoi colori irripetibili dai rosati ai celebri azzurri, al viola, ai verdi acquatici e dissolti, Sturla si muove circospetto, lavorando con coraggio: "Voglio vedere fin dove si può arrivare", dice. Così si spalancano paesaggi rarefatti, che lo spettatore potrebbe quasi inalare, gassosi come sono, se non fossero anche densi di impasto, tirati e increspati, furiosi o delicati. Il gesto pittorico coincide con i movimenti della natura, in una specie di canzona luminosa, dove la complicazione implica la contraddizione (Tassi). L'arte è illusione, ma questa apparenza può essere fortemente spaesante. Dagli abbandoni emozionali Sturla è passato da qualche tempo a una fase più sagace e limpida, di luminoso annegamento, tra acqua e terra, dove il tempo è una "temperatura" e la pittura si fa tonale. Insieme ai paesaggi e alle storie sprofondate, franate, ritroviamo le soglie, quelle porte di legno delle case liguri, attraversate da ferite che sembrano figure evanescenti, e che ritornano da quei primi lavori del '59, come i muri che l'intonaco trasforma in figure enigmatiche. L'esperienza del MAC prima (con il particolarissimo astrattismo totemico a colore pieno, derivato dalle fascinazioni architettoniche del razionalismo e di Le Corbusier, e poi dell'informale, con la frequentazione di pittori come Scanavino e Fasce; la fase fiorentina, quando venne a contatto con la pittura americana, commosso a tal punto da trasferirsi per qualche anno a New York, e la successiva immersione nel vivace ambiente milanese degli anni Sessanta e Settanta, popolato dai vari Manzoni, Chighine, Guenzi, Cassinari; insomma, un pò tutto il percorso di "apprendistato" e di confronto ha enormemente arricchito la pittura di Sturla; ogni corrente o gruppo o tendenza è entrata intimamente nel segno pittorico diventando strumento propizio e prezioso per le proprie originali rappresentazioni. Scrivendo di Luiso Sturla sembra di parlare di un poeta, col quale l'artista ligure condivide senz'altro la passione per le emozioni originali vere, dove scorre più sangue, e non razionali ma paleolitiche per l'intelligenza. Col poeta condivide anche il gusto per la raffinatezza formale, per l'attenzione alle piccole cose,, al particolare, al frammento. Ma ciò che poi stupisce è che tutto, per Sturla, parta, al contrario di quanto accada ai poeti, dalla materia della pittura, dagli oli, dai supporti, dalla forma che i colori stessi suggeriscono alla scena. È come se Sturla, guardando la tavolozza, vedesse già il quadro col cielo che cola nel torrente in mezzo al verde fitto del bosco, trascinando storie remote da altri tempi, tempi diversi dal nostro, tempi perpendicolari al tempo. Così, come per il poeta la parola diventa sostanza e la tecnica strumento, per il pittore è il colore a coincidere con la materia mentre il gesto è lo strumento. Chi crede che dipinti così profondamente evocativi siano una fuga dalla realtà, è fuori strada. La sincera testimonianza di una vicenda personale e collettiva, intima e corale, ricca di strani antenati "aborigeni", rende il lavoro di Sturla evidentemente etico, onesto. Incendi e malinconie che spingono il segno a assomigliare a quelle incisioni rupestri, con le bestie stilizzate e le frecce. Non a caso Costa, conosciuto per il recupero di questo concetto "primitivista", fu allievo di Sturla negli anni Sessanta. La caverna, quel luogo profondo da cui riemergono le cose, come dalla buia mente dell'uomo riemergono i ricordi, è anche il simbolo dell'umanità che recupera e ritrova le sue origini, abbandonando mode o letterature, impalcature o maschere ideologiche, è il luogo concavo, la tana originale che fa pensare alla nascita e insieme alla sua negazione. Si aggiunga l'abile depistaggio che non mostra le cose, ma può solo lasciarle affiorare con la laica pietà di chi ama la vita e l'abbondanza del mondo. (in catalogo della mostra Luiso Sturla Opere recenti, Galleria Bambaia, Busto Arsizio (Varese) 2005)
Simona Vigo, "Verso l'azzurro"“È tempo di guardare il cielo che ispira cuore e mente...” Parole di una poesia di Adriana Dentone, poetessa molto cara a Luiso Sturla. Parole che sembrano nascere per descrivere l’essenza della poetica pittorica di un autore così complesso e tuttavia incredibilmente immediato nel trasmettere emozioni, sentimenti, riflessioni. Il cielo, il cuore, la mente: in ognuna di queste parole risuona il senso profondo di una scelta di vita, di una scelta artistica, di una scelta etica. Il risultato di un lungo e articolato percorso che parte con l’adesione al MAC nel 1958 e che porta Sturla alla scelta pressoché definitiva dell’informale. Una vita dedicata alla ricerca artistica e intellettuale, guidata e garantita dall’esercizio della ragione che mai ha messo da parte i suggerimenti del cuore. Dal razionale allo spirituale L’atmosfera è spirituale, talvolta quasi onirica. Ritroviamo l’espressione di emozioni profonde mai proiettate bruscamente sulla tela ma rielaborate da un pensiero capace di non depredarle dalla loro intima sonorità. Emozioni che diventano miti vibrazioni dell’anima incarnandosi in colori teneri, apparentemente mansueti ma fortemente comunicativi. Quello che colpisce è una luminosità serena non regalata da una fortunata indole spensierata e ottimistica, ma il risultato di un percorso difficile e tortuoso che ha condotto alla conquista della saggezza che fa prevalere un senso di stupore e di incanto piuttosto che di ribellione davanti all’assurdità delle contraddizioni della realtà. Tanta luce, tanta nostalgia, tanta tristezza sublimata in accettazione fiera del mistero delle cose nella loro meravigliosa miseria. Nei suoi lavori, dove c’è violenza e distruzione, c’è sempre la speranza. Dove c’è luce, dolcezza e conforto c’è sempre un’ombra scura e perturbante poiché in ogni fenomeno è racchiuso il suo contrario. La pittura per Sturla è un esercizio spirituale ma non certo mistico. Non c’è disprezzo o indifferenza per la materia. Come afferma lui stesso, la materia è molto importante, fondamentale. Ma a un certo punto occorre il distacco: dipingere la realtà tenendosene fuori. Bisogna avere il coraggio di abbandonarla, di abbandonare il corpo delle cose senza disperazione, confidando nella capacità dello spirito di recuperare tutto ciò che era materia e di restituirlo nei ricordi, proiettandolo nelle ombre degli oggetti, nei fantasmi invisibili dei suoni e dei colori. Nel respiro delle opere d’arte che sussurrano continuamente le melodie lontane degli incontri antichi fra le anime. Così Sturla si riferisce ai supporti della sua pittura, generalmente tele dipinte a olio ma anche colori impastati con la carta o frammenti di altri materiali che avevano avuto un significato segreto o forse anche soltanto casuale nella metamorfosi che conduce un’emozione a diventare pensiero che si scioglie nei colori, si fissa nella materia per poi tornare ad essere vibrazione impalpabile di vissuti intimi e sconosciuti. Dopo gli incendi I quadri di Sturla sono la testimonianza di una biografia complessa che è stata spettatrice di avvenimenti drammatici, che ha vissuto la paura della distruzione e il dolore della perdita ma mai l’amarezza della sconfitta. Dopo gli incendi è il titolo di una serie di tempere su carta realizzate da Sturla nel 1960 durante il suo soggiorno a New York nel quartiere dell’East Side. Un quartiere povero popolato da una verità di razze e di persone. Case coloniali, baracche di latta e di cartone che periodicamente venivano rase al suolo da violenti incendi. Quello che rimaneva dopo la furia improvvisa del fuoco erano i resti carbonizzati dei luoghi e degli oggetti una volta appartenuti a qualcuno. Una clamorosa conferma della precarietà della materia raccontata sulla carta ruvida con interventi di colori forti, in uno stile già dichiaratamente informale. E la violenza del fuoco ricorre ancora in lavori più recenti che descrivono eruzioni vulcaniche o altri episodi di incendi e di guerra. Una delle poche occasioni in cui Sturla recupera l’uso del rosso. Un rosso mai puro, istintivo e violento, ma sempre tendente a sfumature più miti, pacificato da punti di luce a volte diffusa, a volte racchiusa in un angolo. Come nel caso di un quadro che descrive la guerra del Vietnam, in cui non colpisce tanto il racconto dell’assurda violenza, ma piuttosto la luce della speranza che invade l’oscurità della tela. Ma Dopo gli incendi sembra essere soprattutto il titolo metaforico delle scelte artistiche e esistenziali dell’artista. Un po’ come se egli avesse avuto il dono di dipingere con “la quiete dopo la tempesta”, quella calma che inevitabilmente porta con sé la malinconia dei ricordi e la saggezza come premio per chi ha saputo aspettare con pazienza e fiducia che le ferite si rimarginassero, che il dolore diventasse ricordo, una Porta di rosea tristezza (come il titolo di uno quadro) non più rosso ma blu, verde, lilla e violetto.
(in catalogo della mostra Verso l’azzurro, Galleria Agoràrte, Milano, marzo - maggio 2004)
Elisabetta Longari, "Verso l'Azzurro"L’azzurro è il colore del cielo diurno, dell’aria e dell’atmosfera; anche dell’acqua ma a patto che non sia né cupa né profonda, un’acqua chiara e allegra che non stagni ma scorra. Dal punto di vista simbolico è il colore della lontananza, della nostalgia, della sensibilità, dell’immateriale, dell’infinito. Si misura difficilmente sia con gli occhi sia con la mente. Altrettanto inverso ma più leggero, affettuoso, effusivo e amichevole del blu che invece porta con sé un peso e una sobrietà vicini a quelli del nero. L’azzurro è etereo, immateriale e metafisico; il rosso invece rappresenta l’energia vitale, le da corpo. I quadri che Luiso Sturla ha dipinto negli ultimi anni sono frequentemente modulati sulla base di questi due colori; ma è vero che gli sembra preferire da qualche tempo la dominante della melanconia a quella del pathos. Non so perché mi “torna sotto gli occhi della mente” Ofelia di Millais, le sue trasparenze sommerse... forse perché le superfici di Sturla sembrano “golfi”, specchi d’acqua in cui si attua una sorta di “galleggiamento” di elementi che affiorano dando luogo a costellazioni “in sospensione” d’azzurro. (Forse questa visione è semplicemente dovuta a un gioco di specchi, causata da un corto - circuito fra l’essere ligure dell’artista e il mio. Eppure sono di Sturla queste affermazioni: “La luce e l’atmosfera del fiume mi hanno ispirato molti quadri, Il pensiero del mare accompagna i miei blu”. E ancora: “...forse avevo paura di essere sopraffatto dal blu...”). Azzurri: sembra in questo caso improprio usare il singolare; la diversa natura delle gradazioni cromatiche costituisce una vasta e varia gamma di comportamenti compresa tra una tenerezza magra, languida e brumosa e una durezza “schietta e squillante” che ricorda il rumore di “cocci” della porcellana olandese (Michel Pastoreau ricorda che nel 1765 esistevano nella lingua francese ben ventiquattro termini per definire le sfumature del blu). Gli azzurri di Sturla: spesso teneri e carichi di fruscii e tramestii, dilavati, estenuati e perfino gessosi, montianalmente “pallidi e assorti”, di una luce tutta interiore, cosparsi di segni spaesati nella luce diafana di un meriggio che balugina a tratti iridescente come ali di libellula. (Cè una ritrosia impensabile se si guarda al gesto delle carte americane). La materia subisce diverse trasmutazioni: da sospetto alone cresce fino a farsi “crosta”. Anche i titoli di queste tele in cui circolano aria e luce con modalità estremamente variabili, svelano e insistono sul fatto che la pittura è un “filtro” che con estremo riserbo trattiene, ingloba; più che esibire e dichiarare sembra svelare occultando e occlutare velando. A volte qualche elemento resta “impigliato”in una zona più vicina ai nostri occhi e questa breve distanza lo rende più leggibile, ma l’impressione generale è che questa pittura consista in una sorta di “colata” di resina colorata, d’ambra vischiosa e trasparente che presenta inclusioni, “impurità” di diversa natura: libellule, francobolli, cuori, gabbiani, fiori... Insetto e pensiero nel viola e Lettera e insetto nel viola sono titoli che sottolineano questa capacità del colore di imbrigliare le cose più disparate. Custode di un segreto, la pittura di Sturla lo fa baluginare sotto i nostri occhi mantenendolo tale. Nel segno della reverie, anche la consistenza degli elementi cambia straordinariamente: fantasmi, ombre, ectoplasmi e/o veri e propri corpi di cose - per esempio il fazzoletto di carta accartocciato per formare una camelia - restano intrappolati nel tessuto pittorico; i gradi di “realtà” e di definizione di ogni elemento costituiscono una rosa mutevole. A volte improvvisi gonfiori enfiano la superficie che “fiorisce” di pezzi di carbone o di corteccia d’albero brunita. A volte invece segni, lettere dell’alfabeto isolate o organizzate in parole e frasi, attraversano il quadro come uccelli in volo, veloci e imprevedibili come rondini. In molti che hanno scritto di Sturla si sono riferiti a Klee per questa beata indifferenza a prendere partito tra astrazione e figurazione. È una pittura poco incline al sensazionalismo, un po’ gelosa come un messaggio contenuto in una bottiglia. Stesure vibranti, sensibili e atmosferiche, cariche di trasparenze, opacità e ottundimenti, che dall’azzurro spesso trascolorano in un colore un po’ languido e faneè, un mauve perlaceo e al contempo polveroso, questo sì tipico colore della nostalgia, lo stesso delle ortensie recise messe a seccare in un vaso nello studio che Sturla ha in una cascina nell’interland di Milano. Fiori che nascono nei giardini della pittura. “C’è qualcuno che abbia ancora voglia di dipingere una rosa? A me capita: la dipingo con il dovuto sentimento, poi la raschio, la tormento, a momenti la cancello. Deve vedersi appena: è una storia tutta mia che devo raccontare con pudore”. Come l’acuta sensibilità di Sanesi (1985) ha colto, non v’è dubbio che il “il luogo degli eventi minimi e però lancinanti della pittura di Sturla sia in un’ambigua profondità dell’acqua, o dell’aria, ai limiti dell’assenza, e contenga e conduca una sorta di estasi, di perdizione...”. È una pittura il cui processo generativo ha a che fare non tanto con la realtà bensì con i desideri e soprattutto i sogni e i ricordi: centrale è un senso di perdita, un mancamento. Anche i titoli non parlano di lontananza, in modo più o meno esplicito e sempre poeticamente: Ossido e stelle, L’alfabeto del cielo, La caduta di Icaro, Cieli perforati, Lettera da un viaggio notturno, Frammenti notturni, Lettera dal giardino perduto, Il pensiero del mare, Giardino notturno per la lettera E, Lontano nel tempo. “Io dipingo tutto quello che ormai non ho più, che non c’è più” dice Sturla, che se ne è andato via con lo scorrere inesorabile del tempo, aggiungo io, oppure quel che resta, quel poco che resta...appena leggibile, quasi sfigurato. (in catalogo della mostra Verso l’azzurro, Galleria Agoràrte, Milano, marzo - maggio 2004)
Gianni Cavazzini, "Luiso Sturla - Il qui e l'altrove"Si fa presto a dire: una vita. Una vita come questa, di Luiso Sturla, lunga, intensa, appartata e ripiegata, per l’intero suo corso, sul problema, eterno (se si può dire), della pittura. Un’esistenza folgorata, negli anni giovani, da quel miraggio infinito che incatena il cuore e la fantasia di chi è chiamato a entrare nella cerchia, così esclusiva e così ostile, degli artisti: di quelli, cioè, che si assumono il compito di testimoniare la gioia (ma anche il dolore) di un’epoca. Nel caso di Sturla: la nostra. Luiso, dunque, nato a Chiavari nel 1930 (con quel cognome, Sturla, che parla la lingua scabra della Liguria, dei suoi torrenti che, d’improvviso, rovesciano i loro gorghi d’acqua sul mare), frequenta i corsi (canonici, per chi voglia essere, appunto, artista in Liguria) del Barbino a Genova; quindi si iscrive alla Facoltà di Architettura a Torino, per lasciarla dopo un anno appena, richiamato (come prima si diceva) dai magici enigmi che avvolgono il nucleo segreto del dipingere: con gli incroci a sorpresa di materia e colore, con gli accordi razionali di linea, punto, superficie. La giovinezza artistica di Sturla è un avvicinamento lento, ma continuo e inesausto, verso la bocca di quel vulcano entro cui ribolle il magma rovente della sostanza pittorica: quella che, filtrata dagli strumenti linguistici in atto per ogni singola epoca della storia umana, si traduce in realtà poetica di pittura. L’adesione al MAC (movimento per l’arte concreta, fondato nel dopoguerra da due grandi cultori del binomio rigore e fantasia quali sono Atanasio Soldati e Bruno Munari) già rivela, in Sturla, i saldi proposti di non battere i sentieri della visione descrittiva (o figurativa, se si vuole) della realtà. Un’attenzione alla forma che Luiso rinsalda con la partecipazione al fiorentino Gruppo Numero. Ma a determinare la scelta cruciale sul cammino artistico di Sturla è, nel 1960, il soggiorno a New York: a respirare il clima teso e inquieto dell’Action Painting, a colloquiare con i grandi protagonisti dell’avventura creativa destinata a segnare, in modo indelebile, la faccia artistica della modernità. Di quell’esperienza, così traumatica (e, insieme, così formativa) ci sono le “carte americane” eseguite a New York ed esposte, ora, a testimonianza, in mostra. Sturla, con la sua sensibilità a punta di sismografo, viene colpito (ustionato se si può dire) dalla violenza espressiva dell’Informale americano: ispirato a una concezione esistenziale estrema e portata a perdere, nelle sue visioni più drammatiche, il senso oltre che il centro, del vivere. C’è angoscia, c’è vertigine, dunque in queste “carte” che Sturla si porta in Italia dall’America, ma c’è anche la meditazione di una cultura affinata in riflessioni personali e in incontri suggestivi (come quelli intrattenuti con Renato Birilli, nelle estati 1958 - 59 a Menarola). Il viaggio di avvicinamento al “cuore della creazione” (per usare le parole di Paul Klee) registra, nel 1962, la sua tappa fondamentale con il trasferimento, insieme alla famiglia, a Milano: è qui, da allora, che Sturla vive, intrecciando rapporti con alcuni dei pittori più significativi della sua generazione, è qui che si dipana la sua originale, concentratissima esperienza artistica, è qui che matura la sua visione del mondo: quella che consegna ora, in questa mostra. L’incontro con Luiso Sturla e con la sua opera avviene, in una giornata di pioggia scrosciante, nello studio del pittore, posto in una cascina della periferia milanese. Siamo, quindi, in un clima tipicamente lombardo quando l’artista, con molte cautele e parecchi “distinguo”, mi presenta, ad uno ad uno, i quadri della sua recente, meravigliosa stagione. Dico “meravigliosa” perché mi rendo conto che qui, nel silenzio dello studio, accompagnato dai ritmi confidenziali di una pioggia molto milanese, è tutta una vita che si svela dinnanzi ai miei occhi. Si fa presto a dire: una vita. Lo ripeto fra me, mentre Sturla staziona accanto al suo quadro (ora in esposizione, molto personale, tutta per me), con la sua figura alta e fiera, con lo sguardo pulito. Qui non si può scherzare, lo capisco: qui l’artista mette in gioco trent’anni della sua esistenza. Una vita, dunque, trascorsa nel gorgo di una poetica, l’Informale, che si è impressa nella sensibilità, e nel gusto, della nostra epoca. Quella tendenza che ha determinato un profondo rivolgimento nell’arte del ventesimo secolo, a partire dai fermenti dell’Espressionismo Astratto, di cui Sturla aveva respirato gli ultimi vapori nel suo intenso soggiorno newyorkese. Da quel processo, per intenderci, che si dilata nella spazialità epica dell’Action Painting, per diramarsi in un arco di immagini comprese fra il vortice esistenziale di Pollock e il lucido rigore di Reinhardt. In Europa, poi, l’Informale si esprime nel segno racchiuso fra l’aculeo violento di Hartung e la linea luttuosa di Tapis. Ma non è solo segno, è anche materia: è Wols e, insieme, Fautrier. Sono i pensieri che mi vengono alla mente, dinnanzi ai quadri, alcuni di grandi dimensioni, che Sturla mi presenta in una giornata di pioggia molto lombarda. Ci sono, non v’è dubbio, i riferimenti storici appena citati, ma c’è anche qualcosa d’altro, di più importante, nella sequenza in colore che mi scorre, lentamente, davanti agli occhi: ci sono le memorie, i sogni, ci sono le disperazioni vissute in questi trent’anni di esistenza fatti di pittura. Mi accorgo che la poetica dell’Informale, così cruciale nel processo del tempo che si è aperto sul terzo millennio, viene da Sturla interiorizzata, portata nel profondo e da li estratta con la sua carica perturbante. E allora le immagini, con le loro nominazioni individue, sono i capitoli di un unico viaggio, sempre aperto e proiettato verso il futuro: verso la vertigine estrema su cui si decanta la storia di Sturla e della sua magica pittura. (in catalogo della mostra Luiso Sturla - Il qui e l’altrove, Palazzo Diotti, Casalmaggiore (Cremona), marzo - aprile, 2003)
Franco Ravasi, "Luiso Sturla - il qui e l'altrove"Estate 2002: Luiso Sturla è al lavoro nel suo ombroso atelier di Vimodrone, in una vecchia cascina in mezzo al verde ormai assediato da fabbriche e uffici, al margine della Padana Superiore dove l’eco della metropoli arriva con il rumoreggiare di un incessante viavai di macchine. L’artista sta elaborando una serie di grandi tele più volte accantonate, riprese, rimediate, inesorabilmente smagrite di ogni sospetto esubero, tanto che il contesto espressivo sembra paradossalmente nascere da ripetute sottrazioni. È da un tessuto pittorico consunto (con unn termine ormai frusto diremmo sofferto), ma comunque non deprivato di una originale freschezza, con una sorta di palinsesto sentimentale evoca trouvailles da microcosmo naturale - acque, vegetali, insetti - contemplando anche scorci di paesaggio e di interni: presenze rarefatte, come percorse da un brivido e animate da un flash di luce velata e fugace. Già sul nascere, questi quadri presentano un compiuto giardino di emozioni, dove il narrare si dipana nella misura ideale di un affresco fra citazioni e simboli di affascinante levità, in dialogo con squarci di colore disteso e tormentato, a volte luminoso, a volte denso e umorale. Ed ecco brevi romanzi, memorie di un vissuto partecipate con tocco discreto, dove stupori lontani si riaccendono come in un sogno, come nei mutevoli disegni delle nuvole. Tenere le distanze dalla figuralità fine a sé stessa o attutirne l’impeto assertivo, negarsi le bravure e le lusinghe del gesto è attitudine naturale di Sturla, artista dell’understatement, che palesa il suo mondo interiore non senza ritrosia, con segnali pudichi, enigmatici e rarefatti, evocando tenui sonorità. Un mondo di “sussurri”, come si è osservato. O anche inattesi, assoluti silenzi, magnificati in sontuose stesure cromatiche dove un denso e smagliante blu può innescare coinvolgenti suggestioni di trasparenze marine. Un più recente momento sembra comunque imporre a Sturla immagini di maggiore icasticità: parvenze umane o emblemi arcani che reclamano un ruolo protagonistico. E il pittore rimette generosamente in gioco l’esclusività di un sentire “informale”, ancora una volta pronto a rinunciare agli stilemi, alle cifre del successo raggiunto. Intento, si direbbe, a riscattare dalla pura astrazione quel suo ben noto mondo di “frammenti”che ora sembra ospitare profili più definiti e icastici. Ma senza mai contraddire una sensibilità personale che esclude l’indicazione rigida e perentoria, il banale descrittivo. Un operare sempre sul filo del rasoio, in un terreno difficile e affollato di insidie che va affrontato secondo i dettami di un sincero habitus stilistico e morale. Sturla vivifica così di fermenti nuovi il suo fondo di verità e di incanto. Sempre più fedele all’antica passione che per lui continua ad avere un nome solo: pittura. Lo conferma un recente excursus amicale: Luiso, poeta schivo o romantico...? Inseguo i miei sentimenti. E formalmente, alla base della mia pittura c’è la suggestione di Friedrich - il grande Romantico, appunto - e delle sue zone d’ombra cariche di potenzialità. Cosa che rimane nascosta, ma credo si avverta come una sorta di eco, ed è la matrice principale del mio operare. Mentre lavoro, poi, penso a vari pittori, così il mio immaginare, arricchito da stimoli, attraversa paesaggi densi di lusinghe. Ascolto anche della musica: confesso di dividermi tra i classici e Paolo Conte che mi suggerisce immagini e situazioni in curiosa sintonia con quelle che entrano nella mia logica poetica e pittorica. Il tuo assillo quotidiano... Mi sento sempre in uno stato di precarietà, sono alla continua ricerca di un assoluto. Quando dipingo i miei blu, per esempio, immagino un cielo tutto mio che in realtà non esiste e mi chiedo se possa mai essere condiviso. Il tuo background? Faccio parte di quella generazione di mezzo che ha raccolto bene e miseria. Ho sempre guardato agli amici, voglio dire agli artisti della mia temperie, quelli del mio “paesaggio” natale. Ho partecipato all’Informale ligure che aveva le sue matrici in Fasce e Repetto. E le tue simpatie... Vanno agli artisti che mi ricordano la gioventù, il primo momento della mia forza interpretativa, del segno, del vigore che intendevo esprimere in alcune mie “Carte americane”. Apprezzo molto il lavoro e la vitalità di un collega più giovane, Alessandro Verdi, uno fuori dalle convenzioni, un pittore dal gesto totale, direi quasi brutale. E senza pentimenti. Uno tutto diverso da me, che ricambia la stima guardando con sincero interesse a certe mie cose, tanto distanti dalle sue. Ecco la coincidenza degli opposti... Come consideri il colore? Sono un colorista. Anche se non voglio, come si dice, “fare del colore”. E i miei colori sono risonanza di un timbro interiore, di un’atmosfera... Ma il nero, un certo nero, è per me molto importante: è la terra, è l’ombra, è un “oltre” nel quale si affaccia sempre un’immagine, a riscontro di una significante profondità. C’è un margine, tra “qui e altrove” - cito un’espressione che uso spesso come titolo - entro il quale si dipanano le mie storie. È un po’ come se guardassi attraverso un vetro: io con il mio mondo da una parte; dall’altra ci sono altre cose che si muovono, che esigono coinvolgimento... E le visioni che chiami “porte”, “finestre”? La finestra è un taglio nel quale inserisco una scena, ed è quest’ultima che infine conta. La porta invece è qualcosa che rappresenta per me il tempo, la mia storia: la porta percorsa da scritte come fosse una lettera, la porta con un numero, la porta di casa mia, del mio giardino perduto: il giardino che mi ha ispirato tanti lavori e che ora non riesco a vedere che pochissime volte... Io dipingo tutto quello che ormai non ho più, che non c’è più. I tuoi soggetti simbolo: il gabbiano, il pesce... Sono due elementi sui quali ho lavorato ininterrottamente in questi ultimi anni: prima in modo per così dire realistico, in quanto ingredienti del mio paesaggio familiare. Erano parte di un racconto visionario ma anche descrittivo. Ora il gabbiano è diventato una forma bianca, il pesce che gli sta sotto un’ombra scura. Questo discorso luce - ombra che si ripete ritmicamente assume spesso l’apparenza di una scrittura. Riprendo così quello che volevo esprimere in certe mie “carte” negli anni Sessanta, a New York, qualcosa dove si fa strada una rivalutazione del segno, della forma. Un’oggettività in qualche modo legata al clima della Pop Art che in quegli anni si andava diffondendo, in contrasto con le negazioni dell’Informale. Il gabbiano e il pesce sono gli abitanti e i simboli del mio fiume, l’Entella. Vuoi parlare del tuo fiume? L’Entella... Ora non è più lo stesso di prima. Ma l’ho dipinto recentemente, dopo l’ultima alluvione: limaccioso, eppure con quella sua luce speciale sempre dentro. Una luce che conosco molto bene. Tutti i fiumi hanno una loro luce particolare. L’Entella incontra il mare vicino alla mia vecchia casa di Chiavari e il paesaggio del suo estuario è parte viva di me. In qualche modo torna sempre fuori nella mia pittura. Al fiume andavo da ragazzo con gli amici a giocare nell’acqua. La stessa acqua la bevevamo allora... Intorno c’era tanta bella vegetazione e durante le nostre scorribande in canoa ci abbandonavamo alle fantasie: ci sentivamo aborigeni e sognavamo avventure tra piroghe e liane. Riecco il romantico... Ho vissuto il mio trasporto lirico sempre tra il mare e l’Entella... Lì sentivo l’incontro dell’acqua con la terra. L’amico pittore Ossola scrisse di me che sono un’artista seduto su un gradino, con il mare di fronte e la terra alle spalle. Nel mare ho identificato la mia luce, il mio ambiente; alle spalle ho la mia cultura, formata anche dalla lunga permanenza in ambiente lombardo. Se fossi rimasto in Liguria avrei subìto forse troppo il fascino di un mare fisico, da pittore di marine. Il mio invece è un mare più mentale... I miei blu sono blu ideali, sono sogni. Alla fine dipingo la realtà, ma me ne tengo fuori, diffido della sua fascinazione. Devo sottrarmi alla bravura, all’abilità nel descrivere, perché tutto non finisca per diventare stucchevole. Occorre distacco... È importante il gesto? Non sono propriamente un gestuale. Per me è più una questione di tocco, che forse si può chiamare gesto nascosto... Il mio problema principale è strutturare: dove porre una forma nella tela. Allora faccio appello alla mia appartenenza al MAC. Poi tratto il quadro inseguendo forme che via via distruggo. Sono forme - appoggio: una macchia scura in alto, a sinistra, una macchia tonda sotto, a destra... Gli elementi che bilanciano il quadro. Questo tipo di pittura vuole un punto focale, un centro che non è necessariamente il centro geometrico. Qualcosa a cui tutto il resto faccia da contorno... Un pensiero sulla pittura, oggi... Attraversiamo un momento particolare. L’arte è diventata un bene di consumo: nessuno ama più fermarsi a meditare su un quadro. Si vende ormai qualsiasi cosa che assomiglia a un marchio, statico e immutabile, una finzione dell’assoluto, se possibile abbastanza chiassosa... Ecco l’equivoco. Eppure gli artisti ci sono ancora, esistono dei giovani ancora appassionati, diversi da noi ma assolutamente validi e capaci di lavorare sodo, con serietà. Penso a mio figlio Paolo che ha intrapreso questa strada, rivolto ad altri lidi naturalmente, ma con la stessa passione che ci mettevo io. A un pittore non si comanda quello che deve fare, sta a lui decidere come dirigersi. Certo che se si mette sulla strada dei facili guadagni e tenta soltanto il mercato... E poi quale mercato? Dove sono finiti i veri galleristi? Ne sono rimasti ben pochi... Quali sono ora le speranze? Noi abbiamo sempre pensato alla storia, al divenire, al perfezionare, eravamo votati al classico “labor limae”. Adesso occorre soltanto far presto ed arrivare. Il panorama è confuso e per giunta spuntano qua e là forme demenziali che trovano stranamente credito. Sembra ormai che la pittura non abbia più ragione di esistere e tutto finisce tra happening e discorsi. Quando siamo partiti noi, nel dopoguerra, c’era maggior speranza. Mentre oggi ci sentiamo fuori dal mondo, dipingiamo un nostro diario privato del quale sembra non importi a nessuno. E tu...? Io insisto nell’inseguire i miei fantasmi... Ricordo cinquant’anni fa, quando abitavo a Brera, e la sera andavo a giocare al bigliardo nel bar di Piazza Mirabello con artisti amici come lo scultore Pepe, l’umorista - pittore Manzi, e altri ancora. Discorrevamo appassionatamente dei nostri problemi e il compagno di partite più sapiente, il professor Silvio Ceccato, ci ammoniva: “Voi ignorate di essere passati in un soffio dal Medioevo alla Cibernetica”. Ci siamo in pieno. Ma come si può rincorrere tutto? Questa non è roba per me che sono partito dipingendo e ho amato con tutte le mie forze la “pelle” della pittura. Oggi sembra quasi che ci si debba vergognare a dipingere qualche cosa di bello e a dipingerlo bene. C’è qualcuno che abbia ancora voglia di dipingere rose? A me capita: la dipingo con il dovuto sentimento, poi la raschio, la tormento, a momenti la cancello. Deve vedersi appena: è una storia tutta mia che devo raccontare con pudore. Allora continui a crederci... Penso che la pittura resterà viva fino a quando ci sarà qualcuno che crede al suo incanto. E l’incanto della pittura è anche quello un “oltre”: va ben al di là del talento e del mestiere. È un gioco estenuante fra abbandono e rigore. (in catalogo della mostra Luiso Sturla - Il qui e l’altrove, Palazzo Diotti, Casalmaggiore (Cremona), marzo - aprile, 2003)
Claudio Nembrini, "Oltre quel muro"Anni fa, non molti, invero, l’immagine che più ci colpì fra quelle che Luiso Sturla aveva depositato sulle tele o sulle carte nella luce diafana dello studio, aveva la sembianza di un muro o di un sudario. Quel che si vedeva e commuoveva erano lacerti di u mondo le cui tracce stavano impresse sul supporto di lino o di canapa: segni, strappi, frammenti, macchie, ferite, bruciature; ma tutte, quelle tracce leggere, sospese in uno spazio di luce e di musica, sembravano obbedire a un’armonia ritrovata, e nel loro annunciarsi, nel loro rivelarsi, esprimevano il sentimento pieno della gioia e del dolore che avevano accompagnato la loro esistenza primigenia e tornavano ad accompagnarla nella trasfigurazione pittorica. Nulla, nel lungo viaggio che dalla condizione fisica li aveva portati nella sfera dell’invenzione artistica, oltre la barriera della storia, grazie alla dimensione magica della pittura, nulla tradiva le insidie di un processo lento e faticoso che è all’origine di tale atto creativo, anche quando sembra frutto di una suprema naturalezza: il far durare un’emozione oltre il tempo breve della sua apparizione, allorché un elemento esterno - il cielo,il mare, una collina; o una figura, o il suo ricordo, con tutto quanto l’accompagna - l’accendono. La vertigine di quel brivido primordiale, segreta come l’origine dell’uomo, è indecifrabile; non ha sostanza fisica né deflagrazione psichica, benché di entrambe si nutra, come ogni atto riconducibile alla sfera misteriosa dell’esistenza. Solo l’arte può darle forma: anzi, l’arte, l’arte moderna, verosimilmente è quella sostanza lì, che traduce l’intraducibile, ripristina le vibrazioni dello spirito e la dignità del fisico in un tempo che ha smarrito l’equilibrio tra l’una e l’altra dimensione. Ma ciò avviene solo se l’artista, che ne è il medium, ritrova lo stato di grazia con la sua riconquistata sacralità, dopo anni, decenni, di lontananza dai territori magici del primordio nei quali esso si cela, e la consapevolezza di dare di nuovo durata all’azione di svelamento e dell’essenza della condizione umana con la pittura. Ma, a differenza di un tempo, ogni residuo tentativo di imitazione del reale appare inutile; qualsiasi mezzo tecnologico lo sa far meglio. Inutile ed elusiva appare anche la scelta opposta, frequentata da miriadi di “artisti” del secondo dopoguerra, più o meno di radice dadaista: la rinuncia sostanziale del primato dei valori espressivi riconducibili al fondamento retinico all’origine, nella tradizione antica e moderna, dell’arte. Tutto il vasto e controverso capitolo della trasgressione disciplinare, sostenuta dai fautori di un nuovo sistema estetico, nel quale il “pensiero” prevale sul linguaggio, lo prevarica, talora lo irride, riducendolo a puro elemento di contorno, appare come una sospetta fuga in avanti, celebrata, applaudita e remunerata, certamente maggioritaria: è l’arte ufficiale del nostro tempo, benché dai più non sia amata né capita ma subita. Il terreno che resta all’artista che ha continuato e continua a misurarsi con la propria coscienza, oltre che con la storia della propria disciplina, dal suo interno, senza fughe in avanti, con la consapevolezza delle difficoltà da affrontare per darsi un linguaggio in grado di esprimere la condizione moderna, s’è fatto ristretto e impervio, ma anche affascinante, e soprattutto insostituibile. Richiede uno stato di grazia prolungato, anche per proteggersi dai rischi, dalla maniera, dell’improvvisazione, della suprema casualità. Non vi sono scorciatoie praticabili per chi ha deciso di restare fedele a sé stesso nel muoversi su questo terreno, ricorrendo a tutte le energie simbolico - allusive di cui la materia e il segno da sempre sono portatori. O si mettono le ali, e si sfiora il sublime o si cade. Per molti pittori di radice informale questa scelta si è rivelata letale: si sono bruciate le ali, sono precipitati. Per un numero circoscritto, la capacità di resistere, sul piano artistico, linguistico, ha giovato. Luiso Sturla è tra questi. A lungo isolato all’interno degli stessi spazi marginali in cui sono stati confinati gli esponenti migliori della sua generazione, a settant’anni è emerso. Con pochi altri, non avevamo atteso la sua consacrazione per capirne la natura e la forza, ma una curiosità anche in noi premeva: appurare quale evoluzione aveva assunto la sua arte, che cosa sopravveniva di quel mondo poetico che ci aveva affascinati, sintetizzato in quel “sudario”, o da quel “muro”, su cui s’erano depositate e svelate le tracce del suo universo espressivo; accertare in che misura la lunga stagione da defilato avesse cancellato o rafforzato questi segni, conferito durata e spessore, innocenza e splendore a quelle immagini. Lo spazio pittorico è un muro ma tutti gli uccelli del mondo vi volano liberamente. A ogni profondità.
“Questa frase di Nicolas De Stael - osservava Roberto Tassi, scrittore d’arte di rara sensibilità - oltre ad essere una vera poesia è una bellissima e pertinente definizione dello spazio pittorico, e quindi il primo enunciato di poetica per un pittore: una poetica specifica di De Stael, ma anche generale del moderno”. Tassi, poco oltre, aggiungeva: “la frase contiene un enunciato contraddittorio, attraverso il quale si arriva a cogliere la verità, che è sempre complicata”. Non è difficile ancorare al concetto poeticamente formulato dal grande pittore russo - francese, e all’acuto commento del critico italiano scomparso pochi anni fa, l’incip di esperienze artistiche venute dopo, nella scia dello stesso De Stael, ma anche di Wols, di Gorky, di Rothko, e di qualche altro protagonista di quella memorabile stagione che ha felicemente e a volte drammaticamente saldato il dato esistenziale alla resa formale, e tra esse quella di Luiso Sturla, la quale non a caso, ha registrato un nuovo, felice scatto inventivo nelle ultime stagioni, verosimilmente in sintonia con fatti umani che hanno segnato la sfera intima dell’artista, toccandone le corde emotive. Le opere sembrano infatti sorrette da una nuova forza espressiva: la maturità, il dominio degli strumenti pittorici raggiunto dall’artista, hanno trovato nella nuova energia emotiva il fuoco sacro per dar forma e voce ai propri sentimenti, al loro muoversi dalla sfera personale verso l’universale; per lambire quel grande territorio ricordato che ha avuto in De Stael , in Wols, in Gorky, in Rothko, in Pollock, (anche in Giacometti, naturalmente e genialmente, ma in modo diverso: si pensi al ruolo della figura) gli archetipi moderni: per cogliere , a modo suo, la verità che li è annidata. Tuttavia, anche Luiso Sturla ha i suoi fondamentali antecedenti: nel post impressionismo (vi è una suggestiva tradizione ligure, individuata e storicizzata in modo esemplare da Gianfranco Bruno in un volume di qualche anno fa sull’arte in Liguria), ma pure in zone meno esposte del naturalismo ultimo, più o meno frequentate da artisti liguri - lombardo - piemontesi approdati come lui a Milano; ma poi, come volesse sottrarsi a quel condizionamento antropologico, Sturla ha virato presto verso un’area di astrazione geometrizzante, sia pure con qualche suggestione surreale. Nelle tele e sulle carte dipinte, la felicità la malinconia, il candore, la purezza del gesto, i soprassalti emotivi trattenuti, le trasgressioni amate e dominate, l’ardere prolungato di una sacralità ritrovata si fondono mirabilmente in un dosaggio di vecchio e nuovo, di colto e di popolare, di vitalistico e di elegiaco, di doloroso e di sublime. L’artista, nella sua prolungata maturità, anziché spegnersi, ripetersi, ammiccare, rischia, e nell’ebbrezza del rischio trova l’essenza delle cose, la loro nudità, la loro vertigine interrogando e interrogandosi oltre quel muro, o quel sudario, dove aveva raccolto i pezzi del suo alfabeto celeste per spiccare di nuovo il volo. (in catalogo della mostra “Oltre quel muro”, Galleria d’Arte La Colomba, Lugano, 2002)
Camillo Pennati, "Luiso Sturla, dipinti e opere su carta"Pittura è dove non può parola. Né musicale nota. In Musil possiamo certo trovare “respiri di un giorno d’estate” coi mutamenti della solarità in un giardino descritti come a divenire raffigurazione pittorica; in Conrad le seriche vibrazioni della notte da luminescenza astrali nell’animato e fitto intrico vegetale e psicologico; in Proust l’impasto temporale della luce che mentalmente dilaga fulminea e fulminante sui contorni dell’ombra che avvolge e plasma ogni figura d’innamorato e fugace ingombro e nei poeti iridescenti sfumature di paesaggi o tralucenti tonalità che vibrano di là dalle vocali di ciò che sembra essere colore quand’è e rimane soltanto un lessicale cromatismo. Aggiungere l’articolo determinato la e riscrivere che la pittura è dove o come o ciò che o quanto non può la parola è quindi sconfinare nei due millenni di espressività pittorica e farne storia che sempre d’altro al soggetto in sé si configura. Pittura è parimenti concentrato silenzio e ossessiva meditazione, ma precipuamente luminosa vibrazione e incidenza e rifrangenza di e su colori, afoni in sé e atonali. Per dire solo che l’espressività ha dei confini d’artigianale apprendistato entro i suoi mezzi d’espressione ed è illusione stemperarli in ciò di cui si possa saggiamente elaborarne nel contenuto riassumerli e poi restituirli alla particolare unicità di quel creativo porsi in quella determinata interpretazione di un proprio desiderio, d’una propria necessità emotiva di visione da parte di un sé nell’immanente immersione del proprio singolo durare ogni fitta felice di ciò che dell’esserci lo combacia a una sua intuizione partecipe dell’esistere che d’illusione tiene come suo fondale. Eppure magica illusione da cui ne scaturisce la fascinosità d’ogni espressiva creazione e quell’irretimento a coglierne chi che così seduce nella sensibilità d’ogni successiva e estrinseca comprensione, d’ogni partecipe emozione. Così da trovarmi un tempo quale adesso come all’estremità di un molo da cui si erigeva serica e flessuosa una murata nera che in quella sua densa cortina d’aria si tingeva di vibrazioni blu sino a ristemperarsi d’oasi o delizianti varchi azzurri che poi foschie o nebbie grigio ardesia viranti nuovamente al blu in successive ondosità di trapassanti bianchi restituivano a quel nero non più compattamente nero che d’altra fascinosa mescolanza in mescolio era composto da sottili e così cangianti variazioni delle sue trame in quell’appalesarsi affascinante del tessuto in riflessive e temporali successioni. E ancora là di fronte a quelle campiture voluttuose nel liquefarsi o ergersi di consistenti forme ecco il velario slabbrarsi d’altra materia evocativa, d’altra tensione figurale in vibrazioni e squarciature viola e rosa e arancione dove una visionarietà sottile e nascosta rompe in successione forme per crearne altre perseguendo quella poetica di combaciante riflessione e trasalimento che d’una luce ligure a ritradurne la struggenza così prosegue a coglierlo nella felicità raggiunta in cui di intensità pittorica si esprime. Dietro, dalla sua antica linfa ligure sino a questi sottili e sapientemente sensuosi impasti di colore dai blu che affiorano nei neri facendoli di quella penetrante congiunzione vibrare ai gialli ai rosa ai verdi intrisi di trasognanti angoli di terra di trasognate immagini notturne velate di profonde sensazioni e nuovamente a sfolgorii di luci come sprazzi di riflettenti emozioni in un lussureggiare di cromatiche sontuosità trasfigurali - si è andato svolgendo l’itinerario artistico di Luiso Sturla che, dal lontano periodo del MAC di ideologica partecipazione dove le sue geometriche astrazioni erano già intrise di tutto il successivo espandersi informale, oggi giunge a queste quasi visionarie quasi fantasmagoriche raffigurazioni sottese dalle modulazioni perturbanti e maliose del silenzio e dalle sue profonde e riflessive e riflettenti suggestioni che illuminano ogni splendido riquadro e di lì riaffiorano ad accendere lo sguardo, dopo quel lungo e fertile e incisivo soggiorno newyorkese e il diretto incontro con l’informale americano di De Kooning, Gorky, Rotko allora in nascente e sconvolgente accadimento. E di Tapies in Europa. Oggi, tra una Liguria ancora pensile sul mare e una Milano arrovellante di affannosi frangenti. (in catalogo della mostra Luiso Sturla, dipinti e opere su carta, Galleria Bambaia, Busto Arsizio (Varese), febbraio - aprile 2001)
Gianfranco Bruno, "Luiso Sturla"Chiunque avesse intenzione di comprendere come il pittore Sturla sia giunto a quest’ultima sua limpida stagione, in cui ogni scoria del visibile, pur rimanendo un fondamento inequivocabile della sua pittura, appare bruciato nella fiamma divorante dell’immaginazione, rimarrebbe sorpreso nel constatare l’incredibile insistenza con la quale l’artista ha sostato per l’intero suo percorso su di un nucleo originario in cui pulsioni poetiche e soluzioni formali hanno sin dall’inizio del suo lavoro mostrato una precisa, sostanzialmente mai contraddetta identità. Ora che si è finalmente capito - almeno in quella zona della cultura dove non imperi il clamore ad ogni costo o la più vieta intellettualità che s’ammanta di nuovo che non è più tale - come concetti quali unità e coerenza siano luoghi di riferimento che non hanno affatto perduto di attualità allorchè si parli di pittura, più facile sarà intendere l’autentica portata dell’esperienza artistica di Sturla, un pittore che sarebbe errato considerare chiuso in una generazione, quella informale, dalla quale la sua immagine ha pur tratto alimento. L’unità e la coerenza, dicevo: nella pittura di Sturla appaiono categorie imprescindibili, non solamente in quanto un filo conduttore preciso lega le risoluzioni formali che hanno nel tempo caratterizzato la sua immagine, ma in quanto le flessioni diverse che la sua pittura è anadata via via assumendo appaiono costantemente nutrite da quella persistenza poetica che è in ultima analisi il sostegno, la sigla, di autenticità e di significato della sua intera esperienza. Sono passati molti anni da quando scrivevo che nella pittura di Sturla coesistono l’ “organico naturale e pittorico” e l’ “organico psichico”, da quando situavo cioè la sua immagine tra i due termini del più remoto - ma non tanto se si pensa agli anni così prossimi di Monet e Giverny - tardo impressionismo, e il più angosciato scandaglio del profondo operato da artisti come Wols e Gorky. Oggi queste indicazioni non mi paiono per nulla inattuali, ma con più chiarezza, vedendo le sue opere degli ultimi anni, penso si possa affermare che in quell’arco vasto che i due termini entro cui l’avevo allora collocate comportano, si è compiuta una distillazione sottile di quant’altro è avvenuto nel campo dell’immagine che, pur annettendo valore assoluto alla forma, anzi essa considerando l’unico veicolo di autentico senso nella pittura, non rinunciasse a sciogliere il suo legame col mondo. E per mondo intendo qui non la congerie degli accadimenti, l’ideologia sulla quale si struttura il reale, né la semplice apparenza. Sebbene quel più forte coacervo di profondi sensi che intessono ineffabili legami tra l’artista e l’ambiente di cui egli si nutre, quell’afflato che collega e unisce l’azione dell’uomo, i suoi gesti, esiti costruzioni forme, alla inarrestabile crescita, ancorchè soffocata, ma non per questo rimossa, dell’organico stesso, dell’eterna natura, di cui egli è concreta forma. Se l’esperienza iniziale di Sturla, avvenuta all’interno di movimenti artistici italiani di precisa storicità, sembrava mostrare una preminente preoccupazione di forma, presto il risvolto squisitamente esistenziale, conoscitivo e poetico della sua immagine attesta invece il suo immediato scendere al fondo del problema espressivo che è il fondamento della sua pittura. Anche il soggetto del pittore a New York, nel 1960, non va enfatizzato, dacchè il senso più originale di quell’esperienza sta nell’ulteriore libertà acquisita in una gestualità immediata, lo scaricarsi diretto dell’emozione, quasi la dualità io - mondo si componesse d’acchito nel flusso dell’immagine: segno e materia che si strutturano come altro dal motivo che ha originato l’opera, pur portandone il senso, ma come recondito accadimento che ha provocato un sommovimento interiore nell’artista. Basta del resto considerare i temi che ispirano questa pittura, e leggere i titoli che non casualmente l’artista ha dato: alludono talora - Dopo gli incendi - ad accadimenti che sono interni bagliori della coscienza, e anche l’opera che potrebbe essere più didascalica, New York, per esempio, attesta frizioni che ripercorrono disagi, e richiama infine memorie di più minute “occasioni” evocative che altri scandagli pittorici e segnici, di matrice europea, potevano propiziare. “Un’immaginazione tutt’altro che tranquilla - scriveva già nel ‘62 Marco Valsecchi - con sussulti di apprensione, di cupa impressione funesta in mezzo al fulgore della felicità luminosa”. Sono convinto che lo scrittore abbia da subito capito la doppia anima di Sturla, la sua felicità negata per dolorosa, attualissima consapevolezza, dell’impossibilità per la pittura di attingere a quel dispiegato canto cui tenacemente essa aspira. La sua necessità invece di un interiore ripiegamento, di una passione da consumarsi nell’estraneità sofferente dell’arte che oppone un suo schermo alla desolata assenza che il mondo manifesta. È come se tutte le esperienze artistiche del dopoguerra incentrate su di un possibile rapporto dell’immagine artistica col visibile, non fossero passate senza traccia per Sturla. Ma non perchè egli le abbia fatte proprie nella sua immagine, ma - come dicevo poc’anzi - in quanto Sturla, muovendosi nei termini, per lui complementari, dell’ “organico naturale e pittorico” e dell’ “organico psichico”, ne ha distillato il senso al fine di crearsi uno schermo di pittura sul quale riconoscere un possibile rapporto col mondo. Né il groviglio esistenziale di Wols era giunto ad un approdo che non fosse l’immagine del brulichio della vita che ha esito infine nella consunzione e nella morte; né l’ansia di una superstite verità del visibile, offriva a De Stàel un modello in cui riconoscere una potenzialità di ritorno a una pittura delle cose: epperò entrambi avevano indicato la necessità di opporre uno schermo di pittura all’estraneità. Così come la passione di Morlotti aveva ritrovato nell’affondo nella natura la via che, pur restando separatezza, conduceva al pulsare della vita oltre la tragica assenza del nostro tempo; così come l’aggressiva vitalità dei Kline, di De Kooning, di Pollock, era andata nel senso drammatico, irruente immettersi, conservando il controllo supremo del gesto creatore, nel flusso travolgente e indistinto del vissuto quasi a sbarrarne - col gesto appunto - il caotico, insensato divenire. Sturla mediava a suo modo tali grandiosi atti creativi, riportandone l’eco in una nativa, originale misura, che ritengo parallela a quella contemporanea vicenda poetica che ha avuto i suoi protagonisti proprio in quella Liguria donde il pittore trae origine. Tale misura consisteva nel costruire un’immagine che è esattamente il rovescio di quel che fu il fulgore del grande pittore di Giverny. Ed era fatta, insieme, dalla rinuncia a ogni aspirazione a opporre una residua possibilità della pittura ad esprimere il mondo, come avveniva invece negli artisti di cui egli ha amorevolmente meditato il senso: i De Stàel, i Wols, i Gorky. Quanto al tripudio di natura di Monet era glorioso, quanto brulicante era l’amara immagine di Wols, e turgida, densa di figure e oggetti, l’arte di De Stàel, tanto è schiva, ritirata in una zona di silenzio e di ascolto, l’immagine di Sturla. In cui se un oggetto appare è un’ ombra, se una luce vi balena è raccolta in un alveo in cui l’oscurità la insidia o dilaga in quella tesa effusione spaziale che faceva dire esservi in essa una “cupa impressione funesta in mezzo al fulgore della felicità luminosa”. È dunque una pittura, quella di Sturla, che afferra il barlume superstite oltre la corrosione grande dello spazio che la luce, e l’ombra, vanno operando. Anche l’oggetto si consuma, e le ninfee trionfanti si tramutano nel brillio appena avvertibile di un astro, nell’estendersi inafferrabile dello spazio - colore, nella stria di un’erba segnata sul dilagare della luce... “Dipingere sussurri” è la vocazione di Sturla, una pittura che taluno, a considerarne superficialmente gli splendori, potrebbe ritenere frutto di un felice abbandono. Sturla, forte dell’esperienza informale, che azzerava la distanza tra il quadro e il suo artefice, rovescia, pur ritornando all’immagine, l’anteriore assunto della pittura, che era quello di rappresentare. Il quadro è ora un campo che accumula tensioni: della luce, delle forme che vi si immettono, dei varchi che vi si aprono. Dal loro attrito, dagli accostamenti repentini o lievi nascono, appunto, sussurri, echi come nostalgie che rimandano ad una realtà di cui l’immagine non è rappresentazione ma memoria a tutto campo sullo spazio della tela. Della memoria l’immagine ha l’allucinata, luminosa aura, sospinto lo spazio verso chi guarda, la profondità occlusa dell’ombra cupa che l’attornia o che l’invade. Attraverso la vicenda informale, che ha avuto rilevante spessore a Milano nel dopoguerra, tanto da improntare in maniera decisiva espressioni apparentemente discordi come la pittura di pura materia e di gesto e quella comunque protesa al recupero della figura, Sturla è passato con discrezione. Assumendone il postulato di fondo - che non potesse cioè darsi pittura al di fuori di un’assoluta identità tra l’opera e il suo artefice - ne ha sciolto il più drammatico nodo, laddove la potenzialità espressiva della materia si dava come unico, flagrante contenuto dell’opera. Ha riportato cioè quello slancio a una più dipanata elegia, dove la memoria e il sogno rianno i luoghi che l’impeto della materia aveva cancellato. Come Morlotti erompeva dall’implicante, passionale groviglio dei suoi granoturchi e delle sue bagnanti degli anni cinquanta ritrovando una distanza dell’immagine, un suo decantarsi appena, in più lievi stesure su di uno schermo - l’orizzonte del paesaggio - che ammette un sospeso, prolungato tempo all’emozione, così Sturla ha sciolto quel nodo di materia in un disteso velario, oppure su di uno scialbato muro, sui quali s ‘aggrappa una minuta vita di segni o vi erompono, ma sempre erose da una capillare luminosità che a quel velario o a quel muro le avvince e in esso le distacca, forme della nostalgia e della memoria. Che poi queste forme siano riferibili all’unico, continuo motivo ispiratore della sua arte, la appena, in più lievi stesure su di uno schermo - l’orizzonte del paesaggio - che ammette un sospeso, prolungato tempo all’emozione, così Sturla ha sciolto quel nodo di materia in un disteso velario, oppure su di uno scialbato muro, sui quali s ‘aggrappa una minuta vita di segni o vi erompono, ma sempre erose da una capillare luminosità che a quel velario o a quel muro le avvince e in esso le distacca, forme della nostalgia e della memoria. Che poi queste forme siano riferibili all’unico, continuo motivo ispiratore della sua arte, la natura, è attestato dalla qualità della luce, che può attingere mnemonici bagliori o lampi desueti, ma è infine modulata sui chiarori del giorno o su notturni splendori. Senonchè questa “memoria” di natura ha il carattere doloroso che stacca il ricordo di ciò che il tempo allontana, si distende come un velario, appunto, sul quale l’atto del dipingere affaccia resuscitate presenze: e sono forme, colori, segni, comunque impronte, o labili tracce, delle esistenze e delle cose. L’arte di Sturla può parere, ma così non è, eminentemente autobiografica. In realtà la sua pittura fa emergere sullo schermo della memoria apparizioni che affida poi alla dilagante luce: uno spazio che assimila e slontana ogni personale ricordo in un mondo di primeve impronte, come lacerti di un tutto che stenta a trovare unità se non nel fluido sottilmente poetico, e doloroso poiché rimpianto, della luce. S’insinua talora la scrittura nel campo vasto del quadro. È questo, forse, l’unico segno tangibile della presenza d’un tempo presente nell’immagine, l’ancora, nella vita dell’artista e della sua pittura, che attesta come l’immagine navighi sì nello spazio dell’immaginario e della mente, ma tenacemente sia intenta a dar figura e senso alla sua, alla nostra, incomprensibile esistenza. (in catalogo della mostra Luiso Sturla, Centro per l’Arte Contemporanea di Palazzo Rocca, Chiavari (Genova), settembre - ottobre 2000)
Dino Molinari, "Luiso Sturla - 1960 - Una stagione americana"La mostra di Luiso Sturla, allestita al Centro d’arte “La Maddalena” di Genova, propone un momento “storico” dell’attività dell’artista, caratterizzato da opere su carta dipinte nel 1960 durante un soggiorno a New York. Il nucleo dei dipinti esposti, malgrado le particolari condizioni ambientali culturali psicologiche in cui ha avuto origine, non rappresenta un episodio avulso - per quanto circoscritto - dalla carriera artistica di Sturla, ma dimostra una precisa connessione con le esperienze anteriori e quelle successive dell’artista. Si inserisce cioè in quel coerente percorso che, partendo da una iniziale predilezione per alcuni aspetti dell’espressionismo astratto americano e dell’ultimo naturalismo padano - e ligure - giunge a soluzioni - pur sempre di ascendenza informale - di più intima riflessione sui fondamenti espressivi del linguaggio pittorico, sul concetto stesso di pittura come luogo di riscontro tra fenomenologia del reale e dimensione interiore, tra reperto oggettivo e sua organizzazione in strutture endogene. Va precisato che tale prerogativa si è mantenuta inalterata nel tempo fino a configurarsi come una “costante” ed è stata in più occasioni e con chiarezza messa in evidenza dalla critica più avvertita. Già nel 1962, Marco Valsecchi, nel presentare la personale di Sturla al Centro culturale Olivetti di Ivrea, riconosce al pittore la capacità di “rendere l’immagine delle cose dopo che si è intrisa della vita interiore dell’artista”. Nel 1972, analogamente, Franco Passoni interpreta la pittura di Sturla come una rivelazione “magica”… degli oggetti, i quali “vengono visualizzati come fenomeni e rappresentati sulla tela in una trasfigurazione lirica, personalizzata dalla poetica artistica”. Franco Sborgi, nel contesto della collettiva Aspetti dell’informale in Liguria tenuta a Genova nel 1981, chiarisce che in Sturla “il rapporto, pur lacerato, con il reale naturale… è sempre in bilico tra un’esigenza di drammatico coinvolgimento espressivo ed esistenziale”, individuando nel nuovo legame con la realtà “un’attrazione per i rapporti di energia, di interrelazione fra i dati di natura e il margine filtrante della coscienza e della memoria”. Sempre in tema di coniugazione tra esperienza oggettiva e partecipazione soggettiva, tramita una primaria mediazione della mente, occorre citare gli interventi, entrambi del 1988, di Germano Beringheli e di Gianfranco Bruno. Beringheli, nella prefazione alla personale dell’artista al Centro d’arte “La Maddalena”, evidenzia “la suggestione visionaria, romantica di chi avverte, insieme al radicamento storico della fenomenologiaartistica, come lo spazio dipinto sia il luogo dell’accader dell’opera, della tensione che lega mente e gesto e accoglie le tracce del più fluido comporsi di istanze ideali”. Bruno, per la mostra alla galleria Palladio di Lugano, scrive in catalogo: “Si avverte così come un gesto o una luce, pur portando indelebile il segno della loro origine dall’organico naturale e pittorico, assumano l’ambigua parvenza di presenze provenienti da un sofferto scandaglio entro le più profonde regioni della mente”. Quando Sturla nel 1960 giunge a New York per un periodo di aggiornamento ha già alle spalle dieci anni circa di esperienza determinanti. Completati gli studi al liceo artistico Nicolò Barbino di Genova, aderisce nel 1953 al Movimento di Arte Concreta e opera fino al 1956 nel clima di quella corrente a indirizzo razionalista, senza essere però afflitto da un eccessivo e dogmatico “spirito di geometria”. Ne è un esempio La città, opera del 1954 che, pur nella rigorosa concezione formale, indulge a una interna inflessione fabulatoria di origine kleiana più che a una ortodossia geometrica. Oltre al MAC, negli stessi anni operano, massimamente a Milano, altri movimenti artistici - ultimo naturalismo, spazialismo, arte nucleare, realismo esistenziale - nei confronti dei quali Sturla assume un ruolo di interlocutore attivo e dialettico. Dopo il 1956 l’artista ligure si orienta, sempre con più convinzione, verso la poetica informale. L’esperienza del MAC, però, dimostra di non essere stata infruttuosa, lasciando chiare tracce nel suo linguaggio pittorico: in quadri dove sono ormai evidenti la dissoluzione della forma, la ricerca materica, l’impulso gestuale, l’assetto compositivo è ancora sotteso da una razionale strutturazione dell’immagine. Un riscontro è possibile in due esempi limite: La grande ferita e Scogliera alle Cinque Terre, datati al 1959. La grande ferita - in cui Sborgi giustamente evidenzia personali elementi di affinità con Chighine - È un ampio spazio cromatico e luminoso, scandito da nervature gestuali che delimitano aree di tensione e di dosato equilibrio formale. Scogliera alle Cinque Terre è un paesaggio roccioso, lavico, in cui affiorano, appena percettibili, coordinate di sintassi cubista, mentre i neri antracite, i grigi ardesia tipicamente liguri - unica, tenue organica in quel deserto minerale, la vena rossa che brilla come una recente ferita - volgono all’introspezione, al ripiegamento verso una dimensione elegiaca, lontano dalle accensioni barbariche degli Incendi, pressoché coevi, di Renato Birilli. Con questo bagaglio di acquisizioni Sturla si stabilisce a East Side, esteso quartiere newyorkese: un agglomerato di case coloniali, di tuguri in legno, cartone, lamiera, abitato da negri, portoricani, ebrei, apolidi, artisti di varia estrazione, dove con incredibile frequenza si sviluppano incendi paurosi che distruggevano con rapidità interi isolati. È proprio per l’impatto emotivo e il ricordo di quei roghi che i dipinti recano tutti un identico titolo, Dopo gli incendi, volutamente evocativo. La presenza a New York mette Sturla in rapporto con un momento epico dell’arte nordamericana, tra i bagliori non ancora spenti dell’informale - nelle maggiori componenti dell’espressionismo astratto e dell’action painting - e il sorgere clamoroso della pop art. Dopo gli incendi, per i nuovi apporti e la formazione antecedente all’artista, trovano la loro naturale collocazione in ambito informale: realizzati su carte ruvide di formato pressoché identico, sono dipinti con una tecnica mista che utilizza olio diluito, tempera grassa, gouache, pastello, inchiostro di china. Stesure di colore uniforme o a macchia, interventi gestuali calibrati, che incidono, lacerano, animano le superfici, creano momenti di sospensione o grumi di attrito in un medium materico povero e combusto. Il riferimento alla realtà naturale è lontano, diaframmato: si tratta di un’ipotesi più che di un’idea di natura: una natura come memoria, estenuata, appena suggerita non tanto dall’immagine quanto dal colore riarso e terroso. Predomina l’intervento diretto, non mediato, di sollecitazione interiore, profonda, che nasce da condizioni di disagio, di autosegregazione, di volontario sradicamento. Dopo gli incendi ripercorrono la situazione americana dell’epoca e dichiarano le predilezioni di Sturla: gli spazi mentali di Franz Kline intersecati da montanti neri come giganteschi ideogrammi, le superfici tonali su cui Philip Guston agisce con gestualità contenuta, la stesure cromatiche, luminose e vibrate di Mark Rothko. Il soggiorno americano di Sturla dura un anno circa. Al suo rientro in Italia, da Chiavari - città natale e abituale residenza - si trasferisce a Milano, integrandosi nel contesto culturale della capitale lombarda. Negli anni ’60 la situazione milanese non presenta grandi mutamenti rispetto a quella del decennio precedente. L’apparire del concettualismo e dell’arte povera si inserisce su posizioni ormai definite e consolidate. Milano resta la città delle prestigiose gallerie, dei grandi mercanti d’arte e dei maggiori collezionisti. Scomparso Birilli nel 1959, continuano ad operare nell’ambito del naturalismo informale Morlotti, Chighine, il ligure Fasce. Fontana sonda il mistero che sta “oltre la superficie”; Manzoni dal neoconcretismo degli Achromes volge verso nuove esperienze dadaiste, concettuali e povere. Sturla, a modo suo, partecipa a queste situazioni di pensiero: rinsalda il rapporto con la natura secondo una personale prospettiva derivata dalla determinante esperienza americana. La conoscenza diretta della grande stagione informale statunitense si concreta in una visione fortemente interiorizzata che mira al raggiungimento della “centralità” dell’io. Una citazione da Marino Marini - appesa nello studio, accanto al cavalletto - si traduce per il pittore in una dichiarazione di poetica: “Considero profondamente artistica soltanto quell’opera che pure attingendo alla natura se ne astrae e la supera. Arte è anche allucinazione perfetta, tutte le verità della natura in tal modo si trasformano; la trasformazione e la interpretazione sono leggi per gli artisti”. Sturla si pone “dentro” il paesaggio, in una intima concezione di “far natura” che, in un certo senso, recupera in chiave di attualità la lezione romantica. La più recente ricerca di Sturla fa riferimento all’asserzione di Klee secondo cui la funzione non è quella di imitare la realtà, bensì di renderla visibile attraverso il filtro della mente e della fantasia. (in catalogo della mostra Luiso Sturla - 1960 - Una stagione americana, Centro d’Arte la Maddalena, Genova, 1995)
Elisabetta Longari,Corre l’anno 1960. New York è un richiamo irresistibile. Come un sensuale e inquietante corpo di donna. Nel foglio da Sturla intitolato espressamente alla città si annidano toni che ricordano la carne umana, quella stessa carne morbida corruttibile eroica delle figure femminili di de Koorning, allora re, insieme a Pollock, del palcoscenico della pittura americana. Alcuni fogli, dalla cromia più sensibile (languida?), giocano sugli accidenti, i dislivelli dell’epidermide e sui suoi riverberi segreti. In altri, che amo di più, il gesto viene portato da un forte vento teso. Agisce “a raffiche”. The Brooklyn Bridge è un ideogramma che si tende e si contrae come un elastico. Ricordando Kline. Il nero come pura energia visiva. Dopo gli incendi, una splendida serie. I colori, riarsi e spenti come un tizzone consunto, sono quasi tutti inghiottiti dal nero. Il nero del nerofumo e del carbone. O dal grigio della cenere. Resti di roghi, carcasse combuste, corrose, contorte e ritorte, urla della materia, agonia e martirio. Quello che resta. Ma più della presa diretta della realtà è l’idea della distruzione. Metafora dell’esistenza, continua trasformazione, anche dolorosa, morte continuata. Emblema di un’epoca in cui gli artisti bruciano la loro vita come un cerino. Tutto è già ombra, anticipazione della notte. Balugina il nero attraversato da rare trame di colori. E anche la pittura, come sa bene Fautrier, “è una cosa che può solo distruggersi: si deve distruggere, per rinnovarsi continuamente”. Quello che nasce. A volte il colore traccia una forma dinamica simile al boomerang. In Long Island il nero, premente e pressante, interrompe la sua corsa minacciosa appena in tempo per lasciare respirare quel segno che in piedi contro il cielo traccia il profilo kleiano di un paesaggio. E, sempre nello stesso foglio, incanta quella specie di scheletro secco di arancia tagliata a metà che forse è un ombrellone caduto sulla sabbia. Altrove (in una delle due versioni di The Brooklyn Bridge) il segno si fa scrittura ancora più sensibile, sottile filamento, vibratile traccia di una percezione acuita, esacerbata, fibrillata. Fatti di luce e di ombra, per lo più guizzi, rapiti con mano rapace. Un’altra famiglia: gli Studi di forme vegetali sembrano contenere in una sola immagine la metamorfosi dal naturale all’artificiale, dal fiore all’oggetto, dalla temibile pianta carnivora alla macchina non meno crudele e misteriosa. Le forme fitomorfiche si chiudono rapprendono raffreddano in pezzi di ricambio (tubi, collettori…). Come se i frutti ambigui di un immaginario surrealista restassero impietriti dopo aver ricevuto un getto di acqua ghiacciata da una doccia di Wesselmann. Presentimento pop. Quante cose in questi fogli, nelle dita di Sturla e nei nostri occhi. L’arte è proprio “allucinazione perfetta” come recita una frase di Marini trascritta dal pittore su un foglio appeso a una parete dello studio. (in catalogo della mostra Luiso Sturla, 1960. Una stagione americana, Centro d’Arte la Maddalena, Genova, 1995)
Roberto Sanesi, "Tempere"E infine venne il tempo, ricordava Rilke, che la lode della terra fu anche la lode del cielo - il tempo, si potrà forse aggiungere ora, che la terra, ovvero il paesaggio, non è più soltanto il cammino sul quale l’uomo procede, un luogo “a parte”, o in attesa, quasi invisibile per insignificanza; oppure al contrario, un luogo puramente metaforico, destinato ad essere citato quasi solo a pretesto di una sublimazione simbolica. In un caso o nell’altro, una scena. Quel paesaggio da intendersi come “natura che nacque, mondo che divenne, estraneo all’uomo”, entra a far parte in modo autonomo nella storia della pittura in un periodo relativamente vicino, e ancora si dibatte attorno ai modi infiniti per acquistarlo. L’uomo, l’artista, colui che osserva e rappresenta, il facitore di tutti i sensi e di tutte le variazioni di senso che la natura visibile suggerisce è di nuovo, inevitabilmente, al centro di questo luogo: ma ne fa parte al punto che il paesaggio trova la propria verità in lui: ne riflette la gioia, lo stupore, la paura, la malinconia. Per segni leggeri, per delicati tratti di colore, per toni sfuggenti, per trasparenze che simulano la fronda al tramonto, lo scorrere delle acque o la quiete dell’animo, la delicatezza di un fiore o l’affiorare di un’inquietudine, l’ombra di una nuvola al crepuscolo o l’avvertimento enigmatico di un mutamento d’umore. Nella pittura di Sturla ciò che si intende per paesaggio, e che pure è subito apprensibile come tale, staccandosi da ogni sospetto di imitazione per imitare caso mai una reazione intima al visibile (un visibile che si scopre essere poi tutto mentale), si ha la sensazione che stia dietro il paesaggio. Per assurdo, si vorrebbe dire che non c’è più, o non c’è ancora. Ne scorgiamo la soglia, a un punto limite prima del quale la sostanza peserebbe inerme, oltre il quale non sarebbe. Non remoto, non astratto, il paesaggio di Sturla attiene alla concretezza certa della natura in quanto si offre come suo fantasma molteplice, ambiguo; o come frammento, segno, talmente dilatato da sfuggire alla propria connotazione immediata per alludere a una unità indifferenziata; a un’idea di paesaggio. Credo di avere insistito più volte sul fatto che il suo congegno, o metodo d’apparizione, è nella transitorietà delle metamorfosi; oppure, ed è la stessa cosa, nello sprofondamento dello sguardo che lo osserva, per restituirlo in quanto sguardo che osserva, non in quanto oggetto osservato. Paesaggio non abbandonato alla sua solitudine, non ritirato in una sua “profondità comune” e autonoma, ma recuperato, “a specchio”, a quel luogo di tutti gli incontri che è il pensiero immaginativo. Che è detto da alcuni psiche, da altri semplicemente poesia. (in catalogo della mostra Tempere, Studio Centenari, Piacenza, Marzo 1993)
Francesco Tedeschi, "Luiso Sturla"L’ostinazione nell’ambito di una tecnica pittorica per molti aspetti tradizionale, proprio per quella insistenza sul “mestiere” che si fa sentire anche quando non è dichiarata, può assumere il duplice significato di una fedeltà al mezzo espressivo o di un comprensibile timore a liberarsi dai retaggi della tradizione. È un po’ quello che è accaduto a molti artisti della generazione di Luiso Sturla, per condizioni storiche combattuti tra la tentazione di rivolgersi a linguaggi più provocatori, sentiti però come una ribellione alla natura più delicata e costruttiva a loro più vicina, oppure rinvenire la propria disposizione interiore e adeguarvisi senza lasciarsi troppo condizionare dall’esterno. Se ne sono spesso generate vicende che attraversano le varie stagioni dell’arte risentendo delle mutazioni del clima. Qualcosa di simile può, a prima vista, toccare lo stesso Sturla, guardandone per tracce esterne l’evoluzione: contatti con il MAC all’inizio degli anni Cinquanta, avanzamenti in direzione astratta, nuovi rapporti con i linguaggi attivati dal contesto dell’informale, piegando ora verso la materia, ora verso il segno... Ma se, a quell’epoca, il buon quadro può essere divenuto per molti occasionale e a molti disponibile, solo per alcuni maestri risolvendosi realmente in una forza originale e autonoma, nel nuovo campo aperto, spazzato da quella rivolta contro la forma, si capisce quale fosse la tendenza genuina e originaria di autori come Sturla. Ci sono lavori di un certo interesse, materici e violenti, nella sua produzione nata dal raccordo al contesto informale dei tardi anni Cinquanta, ma quella violenza fa parte di un’insufficienza di quella maniera per lui e quasi di una insofferenza dichiarata nei confronti di essa. La sua disposizione non era e non è quella dello sperimentatore di linguaggi e di mezzi, ma piuttosto quella dell’adesione a una linea - che può forse essere inattuale in una prospettiva avanguardista, ma che fa comunque parte del nostro tempo - di pittura che si radica nell’immagine romantica, pre- informale, in un’osservazione partecipata del fenomeno naturale. Il mare, il cielo, il fondo marino, senza grandi intellettualismi o forzati simbolismi, sono espressione di quello che l’artista ha da sempre sentito come suo habitat. Una pittura “marina”, con quello che le trasformazioni dell’acqua quale energia naturale comporta, con presenze che non sono solo visioni della realtà, ma che tendono all’onirico, all’immaginario, alla reverie. Non c’è determinazione perché tutto fluttua; l’immagine raggiunta non è figurazione di una realtà oggettiva, ma si pone al confine tra il visibile, l’inconscio e la sensazione. Ecco perché si può sempre avanzare il rifiuto della distinzione fra astratto e figurativo, in uno spazio di confine che partecipa di entrambi. Certo è che nella pittura di Sturla, particolarmente la più recente, è chiaramente visibile la contornatura, cioè la presenza - funzione di un margine che riporta il quadro a essere finestra sul reale (o sull’immaginario), senza potersi aprire a una continuità spaziale, come è proprio di tanta pittura indirizzata a ricerche formali sulla pittura stessa, secondo la lezione della pittura americana della “Scuola di New York”. È la stessa memoria storica, della pittura come rappresentazione, compiutamente europea, a determinare queste volute limitazioni del campo, in cui il quadro è avvenimento minimo, che concerne la vita naturale. Pregio della pittura di Sturla è di riuscire a ottenere, attraverso la riconosciuta abilità tecnica, frammenti di emozioni, che non ha molto senso cercare di rapportare ad altre modalità pittoriche, per quanto vicine (come nei pittori a lui affini, da Fasce a Repetto, a Guenzi), quanto considerarle nella dimensione lirica, dove questo termine ci dà la misura del loro essere oggettivazione (figura) di condizioni interiori (memorie o emozioni) del tutto individuali, diverse per ciascuno, ma comunicabili per “simpatia”. Un senso notturno e privato abita inoltre i suoi dipinti, ponendoli sotto il segno lunare, dove le cose sono meno identificabili, luci e ombre di un mondo che si condensa per un momento della superficie - schermo dell’opera, prima di sfuggire nell’inconscio o nel buio. (in catalogo della mostra Luiso Sturla, Galleria 15, Piacenza, 1992)
Ivo Iori, "Luiso Sturla"“L’informale e la generazione dell’Informale che si è venuta formando sopra tutto al settentrione ma con punte in altre aree, dalla Liguria alle Marche, (…) perde il confronto agli inizi degli anni Sessanta con la cultura Pop statunitense che è universalmente nota nel 1964 a partire dall’esposizione alla Biennale di Venezia ma che entra in rapporto con l’Europa almeno due anni prima”. Così ha scritto, qualche anno fa, A.C Quintavalle, nel presentare all’Università di Parma (presso le Scuderie della Pilotta) un’importante mostra su dieci pittori che hanno operato (e operano) con alti risultati a Milano. Da poco tempo, attraverso un lento ma costante riconoscimento si sta saldando un debito e oggi la pittura di Ossola, Raciti, Repetto, Ruggero Savinio (per fare alcuni nomi di loro) ne è conferma. Sempre in questo contesto operano poi, appartati, altri con una qualità di pittura alta e chiara. Tra di essi Luiso Sturla è un esempio paradigmatico. Nato a Chiavari nel 1930, nel ‘53 aderisce al MAC (Movimento Arte Concreta) di Milano per approdare, qualche anno dopo, negli Stati Uniti e studiarvi i maggiori interpreti dell’arte americana del dopoguerra. La sua pittura informale si sviluppa subito, con freschezza e profondità notevolissime al punto di essere presentato, nel 1962, da Marco Valsecchi al Centro Culturale Olivetti di Ivrea, meta ambitissima, in quegli anni, anche per gli artisti già affermati. La “rappresentazione informale” della natura diventa subito per Sturla il punto cardine e sempre Marco Valsecchi avverte nella sua pittura “un rifluire di luci, di sottili trasparenze entro le clausole del rigorismo astrattista, un confondersi di sensazioni e di forme impossibili, una vittoriosa allegrezza della vita interiore sulle dure sigle dell’estetica”. Come se l’arte fosse, ricordando il Bontempelli di Valori primordiali “il solo incantesimo consentito”. La pittura di Sturla è una continua immersione nell’elemento naturale ed i suoi colori obbligano, attraverso continue apparizioni, ad un saldo e profondo vincolo panteistico. Sembra di leggere alcuni passi del diario di Afro: “Può una forma pittorica avere anche un valore come apparizione? Può il rigoroso organismo formale di un dipinto contenere la luminosità, l’alito vivente di un’evocazione, lo scarto o il brivido della memoria?” Si, è tempo di saldare, anche con Sturla, un debito. (in catalogo della mostra Luiso Sturla, Galleria 15, Piacenza, 1992)
Marina De Stasio, "Sturla"Tra l’abisso del mare e l’immensa volta del cielo c’è poca differenza, sono luoghi che alcuni corpi attraversano in un loro tragitto che si perde nell’infinito, e dove altri corpi restano, eternamente ripercorrendo le vie note del loro esistere misterioso. L’acquario cosmico di Luiso Sturla è uno spazio centrale luminoso, ai margini del quale si accumulano depositi oscuri; l’occhio è astratto dal vuoto, dalla limpida trasparenza del colore al centro, ma è continuamente consapevole che ai margini della visione qualcosa può accadere. Scendere nel profondo, calarsi nel fondo, in questo grembo azzurro non significa immergersi nell’oscurità, ma, al contrario, schiarirsi: la materia si depura, si decanta, si fa leggera; il profondo è il luogo della luce, filtrata, riflessa, ma proprio per questo più preziosa e incantata. I segni che solcano o abitano questo spazio sono tracce luminose, gomitoli che si sfanno, forme quasi cancellate dalla rapidità di un movimento che sale e ridiscende come lo zampillo di una fontana o come un fuoco artificiale di oscurità, oppure percorrere lo spazio in diagonale, che sia un fascio di luce o una medusa. Segni semplici, una conchiglia o un arcobaleno, un pesce o una luna, presenze che in qualche modo creano una tensione; i loro pesi, per quanto minimi, si pongono in un equilibrio definitivo, che non potrebbe essere alterato: la lievità del segno, l’immaterialità della forma non li rendono transitori, labili, con questi elementi il pittore vuole costruire strutture esili ma forti. È un po’ il segreto di questa pittura, che spesso è stata intesa soprattutto in senso lirico, come espressione di un sentimento della natura, di un’emozione di fronte al calare della sera, alla luce malinconica del tramonto riflessa nell’azzurrità dell’acqua. È una lettera certo non immotivata, ma la sfida di Sturla è proprio quella di costruire con queste suggestioni delicate un insieme fermo e persistente, di creare attraverso i segni e le forme collocati nello spazio un equilibrio tra le forze che premono agli orli e la luce che si rivela progressivamente verso il centro, spingendo tutto in superficie, annullando su un unico piano una profondità che diventa solo sogno o ricordo. Spesso l’immagine dipinta è circondata da una cornice leggera, c’è una voglia di strutturare, di definire l’immagine, ma con una struttura che non interferisca, che non chiuda: il limite fra dentro e fuori è illusorio, un confine dove un varco può mettere in comunicazione il qui e l’altrove. Nelle composizioni si ritrova la memoria dei profili, dei contorni della costa ligure, di una natura che non esiste più, che non tornerà mai più ad esistere, di un rapporto fra terra, cielo e mare che è ormai diventato solo un fatto mentale, non è e non potrebbe mai più essere naturalistico. Un quadro s’intitola Il gabbiano e il sole: l’ombra delle cose solide, anche se in movimento, e il riflesso delle cose luminose; il barbaglio del sole o, in altri quadri, la sera come avanzare dell’oscurità che a poco a poco occupa il vuoto della luce, tutti questi elementi impalpabili, impercettibili, queste apparizioni fantasmatiche, polipi o sirene, formano un mondo inventato, misuratamente visionario, libero dalla legge di gravità o da quelle della logica, ma governato da una ferrea necessità poetica. Le forme si materializzano per un attimo, appaiono, poi scompariranno per sempre, di loro resta per un attimo la traccia, il ricordo, poi non resterà più nulla, ma comunque saranno esistite, nulla potrà cancellare il loro esserci state, l’avventura della visione e dell’emozione resterà come un evento inalterabile. (in catalogo della mostra Sturla, Centro d’arte la Maddalena, Genova, marzo - aprile 1991)
Roberto Sanesi, "Sturla"I. La pittura di Sturla, pur nella sua variabilità, si manifesta come continuo addensamento d’energia, incontro di veri e propri dati rappresentativi, perfino descrittivi, verso un’ipotesi di èstasi naturale - nella quale, in apparente opposizione, ogni elemento anche appena accennato, con tocchi lievi, non più talvolta che brividi di colore, possa, anzi debba essere cancellato dal visibile per entrare a far parte del non conoscibile, essendo questa astrazione sensuosa (una traccia, una fantasima) l’effetto perseguito. Da cui, per esempio, l’estrema spoliazione stilistica. Fino a restituire come mutevole ogni figura data in natura come costante, immobile, dotata di peso: e si vedrà in certi casi come simili accenni all’oggetto circoscritto tendano a depositarsi in basso, negli angoli, gravati dalla loro concretezza. Oppure: fino a rappresentare come immobile qualsiasi segno di mutevolezza, l’ombra, il riflesso, il guizzo impercettibile di una luce sull’acqua, l’oscillazione di un ramo. In uno svariare dall’essere all’apparenza, dall’apparenza all’essere, presentificando insieme i due termini, e tuttavia evitando la metafora esplicita. Fiore e farfalla che nell’appartenere a un ordine imprecisato e indistinguibile mantengono comunque, per certe loro disposizioni da erbario o da trattato, una loro identità riconoscibile. In quanto soggetto (soggetto di un quadro) l’elemento natura è generale, ma ciò non impedisce che rimanga oggetto particolare. L’esperienza informale resta fondamentale nella pittura di Sturla, ma accede ormai a risultati del tutto estranei alla pastosità magmatica della materia, o al gesto “puro”, incontrollato. Il rapporto con la natura che Sturla suggerisce riguarda il tempo, è un fatto temporale, un evento. Lo spazio ne viene implicato solo per motivi tecnici, di disposizione del visibile in un luogo che non è più che un pretesto. Essendo in conclusione i ritmi, le cadenze, ad avere importanza. II. Quanto alla materia, alla sua suggestione fra l’organico e lo psicologico, inclusa l’emozione gestuale (in qualche modo resa esterna, indizio di accadimenti segreti), con il passare degli anni lascia posto al segno, ma non nel senso di una registrazione, o “scrittura”. Piuttosto, segnale di transiti, in equilibrio fra ciò che era stato (presenza ancora attiva ma ormai spogliata del proprio involucro) e ciò che sarebbe; in uno sguardo attento non alla memoria, che starebbe a significare ripresentificazione, ma alla “invisibilità” costante all’interno della cosa. Allo stesso modo, con un salto linguistico, per il quale si oserà definire come suono una presenza oggettuale, Sturla sembra tentare il recupero del silenzio. Spesso ciò che è visibile è l’intervallo. III. È stato detto più volte delle sue sensibilizzazioni materiche: e si vedano in particolare le composizioni degli anni ‘60, nelle quali, appunto, erano più gli impasti (certo raffinatissimi) che non il segno, più le stesure organizzate (perfino con accenni di razionalità, quasi in avvio alle ristrutturazioni dell’oggetto) che non gli abbandoni emozionali ad essere posti in evidenza. E che dopo una fase, mai perduta, di maggiori chiarezze e trasparenze, in varianti più limpide di verdi e grigi e azzurri intese a mimare in termini ormai espliciti, ma per allontanamento dello sguardo, presenze dinamiche - onde, foglie e voli d’uccelli in spazi aperti, nel dominio della luce - tornano qua e là a costruire forme di qualche solidità, con forte senso plastico malgrado l’intenzione sia di annegamento: le rocce, gli scogli, e ancora, certo, la ricorrente immagine del muro, superficie scrostata, luogo di cancellazioni, di impronte vaghe, ricettacolo d’ombre, metafora di uno specchio in cui ciò che si riflette è un’orma transitoria, con qualche nostalgia di un paesaggio da recuperare. Ma, sempre più, non per via descrittiva, essendo ciò che resta una memoria guizzante e sottile del presente, unica “memoria” consentita, reperto del gesto stesso che la rivela e nello stesso tempo l’allontana. “Nessuna cosa è, invero, mai, bensì sempre diviene”: una concezione eraclitea tradotta in purissima liricità di luce. Non può stupire, ormai, che il luogo degli eventi minimi e però lancinanti della pittura di Sturla sia in un’ambigua profondità dell’acqua, o dell’aria, ai limiti dell’assenza, e contenga e conduca una sorta di estasi, di perdizione. IV. la zampa dell’airone graffia le incrostazioni dell’ultimo naufragio, il ciottolo muschiato risucchia le radici del tramonto nei fumi densi dove si interroga il verde sulla sua ritrosia ad accettare il nero... Perché probabilmente la “figura” emblematica di una pittura come quella di Sturla è l’estuario, nella sua connivenza d’acqua e terra, fluente e solido, compresenza di interpretazioni divergenti, riflesso e riflessione costante dell’opposto, negazione della fissità. Spettri d’erbe, imprevedibili solidificazioni di un rèfolo d’aria. Sempre lo spostamento è verso l’interno e verso l’alto, con il tocco leggero e solenne, perfino inquietante, di una parvenza engloutie - essendosi il mare come sprofondato, nelle ultime opere, in una silenziosa e intensa volta celeste, solcata da tracce filanti di veli impalpabili, astri o ali disperse, luci in caduta (ma qual è il basso, qual è l’alto di questo percorso?) che forse Rilke potrebbe riconoscere. (in catalogo della mostra Sturla, Biblioteca Comunale Cassano D’Adda, Milano, 1985)
Fernanda PivanoLa prima volta che sentii parlare di Luiso Sturla il pittore ligure - che espone alla Grafica Clab (via del Gesù 17 fino al 10 novembre) una trentina di tele composte in due anni di lavoro - fu quando Gregory Corso mi raccontò che era stato ospite suo per qualche settimana a Milano. Sturla aveva conosciuto il poeta a New York dove era andato a trent’anni, nel 1960, restandovi 8 mesi, partecipando a due mostre collettive ma soprattutto frequentando il “Cedar Bar” col suo pubblico di artisti e conoscendo da vicino grandi pittori americani come De Kooning, Rotcho, Larry Rivers e altri protagonisti della straordinaria scena di quegli anni che in America assistè al passaggio dall’arte informale alla Pop art. Quando vide una mostra di Morandi con Dubuffet capì che si poteva arrivare in America già con una firma europea senza fare la gavetta americana e ritornò in Italia. Andò a stare a Firenze e mise a frutto l’esperienza americana con una serie di mostre finchè verso la metà del 1962 venne a stabilirsi a Milano e una mostra del Centro Cultura Olivetti presentata da Marco Valsecchi lo confermò nella sua posizione di pittore sicuro e affermato. Oggi è molto più affermato ma la sicurezza della gioventù gli si è smussata nell’umiltà degli artisti maturi. Dal 1962 a oggi sono successe tante cose: è arrivato al segno puro nel 1965 iniziando un discorso imperniato su una natura di memoria rivisitata, con un certo spessore di materia che si è andato via via raffinando. Quest’ultima mostra rivela una conquista dei suoi paesaggi lunari, paesaggi teneri e dolci come si possono vedere nella realtà nei crepuscoli dorati della sua Liguria, che Sturla continua a cantare coi colori e i grossi pennelli mai ripudiati. Sturla non li chiama paesaggi ma “spazi di natura” e inserisce nel colore raffinato e senso, inquietante. In quest’ultimo periodo si è posto da spettatore attento e attonito di fronte agli avvenimenti “minimi” nei grandi spazi, gli avvenimenti degli “animali palustri non identificati” o nel “centro di un acquario”, dove il segno nervoso si intreccia all’immaginazione vibrante di questa popolazione “nuova” di un’ecologia in mutazione, che affiora a disturbare i suoi grandi spazi aperti ora rosati, ora verdastri, sempre allagati di luminosità. Acqua, cielo, trasformazioni ecologiche, minuscoli embrioni fantascientifici in una natura diventata spazio.” (in «Corriere della Sera», Milano, 1983)
Franco Sborgi, "Aspetti dell'informale in Liguria"(…) Luiso Sturla, ligure trapiantato a Milano, senza mai rinunciare alle proprie più intime radici. Sturla, dopo un’esperienza nell’ambito del Mac, di matrice razionalista, nella seconda metà degli anni Cinquanta, aderisce con piena intensità alle esperienza dell’esistenzialismo informale. Il suo percorso è fatto di diverse tappe: assume all’inizio una materia spessa e densa, che tende ad aggregarsi in forme vagamente embrionali, di allusività cosmica (si vedano Antares, I segni della terra), a suggerire un raggelato e distaccato nucleo - segno originario. Ma la componente materica che è presente in queste opere tende, per la sua pressanza, a farsi drammatica, ad emergere e farsi ragione del dipinto, come in Scogliere alle Cinque Terre, e a ricostruire allo stesso tempo un rapporto, pur lacerato, con il reale naturale. Rapporto con il reale naturale che è sempre in bilico - come del resto in tutta l’opera di Sturla - fra un’esigenza di riconoscimento e un’esigenza di drammatico coinvolgimento espressivo ed esistenziale. In questa direzione del resto si muove un gruppo di dipinti intorno agli anni Sessanta, di cui ricordiamo la Grande ferita, che risentono, nella loro tensione drammatica fra materia e segno lacerante, di certe esperienze dell’espressionismo astratto americano (che Sturla dovette senz’altro avvicinare in un soggiorno negli Stati Uniti) e non lontane da certo Chighine: qui il colore si fa freddo e aspro, modulato su dei bianchi in cui affiora talora la stridenza di un timbro, disposti con una tensione di gesto. Ma l’esigenza di un ritorno ad una più diretta presenza nella continuità esistenziale con la realtà, vissuto non più solo come un impulso drammatico, ma anche come possibile incontro di rasserenamento, se non altro nella dimensione dell’evocazione, riporta Sturla negli anni successivi a un più immerso rapporto col dato naturale: si badi bene, non ad una ripresa di figurazioni determinate, ma un’attenzione per i rapporti di energia, di interrelazione fra i dati di natura e il margine filtrante della coscienza e della memoria. La gamma cromatica si riaccende, in un’atmosfera aerea del reale, dove le cose si presentano come tracce, labili segni di un’identità impossibile a ricostituirsi appieno. (in catalogo della mostra “Aspetti dell’informale in Liguria”, Palazzo Reale, Teatro del Falcone, Genova, luglio - agosto 1981)
Luca Venturi, "Luiso Sturla"È dalla prima età degli anni ‘50 che Sturla si dedica ad esperienze di pittura. Nel dopoguerra l’Italia, l’Europa si trovano ormai in una posizione subordinata rispetto all’arte nord americana. L’espressionismo astratto, lo action painting hanno solo imprecise eco nel continente che aveva dato vita alle avanguardie che dalle Demoiselles d’Avignon in poi avevano attratto i personaggi più sensibili e, forse, coraggiosi. Sturla sente il clima informale, il suo lavoro che pure denota in un primo tempo le note astratte geometriche che hanno i loro maestri italiani in Radice e nei pittori comaschi - non trascura le esperienze che informano dieci anni di storia dell’arte. Ma questo non risolverebbe nulla, Sturla decide quindi di affrontare in prima persona quanto si sa che accade, ma non si conosce. E in America può incontrare, conoscere, imparare e giudicare quanto sia rilevante l’operazione di lesione del sistema del fare pittura da parte di Rauschenberg, Johns, Warnol. E, sorprendente, non cede all’illusione pedante del rivisitare la pop - art o ad una mitizzazione meridionale di se stesso, per costruire un complesso corpo astratto, lirico, in cui trova la sua fisionomia, l’orizzonte che non c’è del mare, la materia del colore a olio. Così, tradizionalmente, ma con buon senso disarmante, riesce a risolvere il suo operare individuando non l’ultimo spunto avanguardistico - la cui nozione ha perso significato - ma se stesso. (in catalogo della mostra Luiso Sturla, Al Vicolo Due, Genova, febbraio 1975)
Antonio Guerci, "Luiso Sturla"(…) Abbiamo parlato a lungo della sua vita nello studio che Luiso ha sistemato nella sua casa - giardino in via Piolti de Bianchi al 35. Una esistenza tormentata dall’ansia di ritrovare i colori del cielo, del mare, della terra, dei sassi e della vita che sta nascosta dappertutto con le sue luci misteriose. Sturla ha lasciato il suo paese terminato gli studi e ha cominciato a girovagare tra Firenze e Milano, ritornando periodicamente in Liguria dove ha raccolto le impressioni più profonde, che gli sono rimaste nel cuore. Convinto dal figlio Leo Lionni se ne è andato in America proprio intorno agli anni sessanta, con la moglie Evandra, in piena esplosione pop. Si è ficcato in una baracca dell’East Side ed è stato a guardare quel mondo violento e inverosimile. Senza dipingere Burri, Warhal, Rauschenberg e gli altri raccontavano una sconcertante favola nuova che lo lasciava stordito e gli faceva intravvedere nelle luci dei tramonti di Manarola una poesia e un dramma che la serenità delle sue scogliere non gli avevano mai suggerito. Capì che la pittura è legata alle nostre origini, alla nostra cultura. Che si deve guardare agli altri, ma con il nostro occhio, con il nostro sentimento. Il mondo è immenso ma non può essere raccolto nei segni che i secoli hanno lasciato su un sasso, nella spuma di un’onda che può balzar fuori anche dal nulla. Mi ha fatto vedere i suoi quadri. Uno per volta, quasi con timidezza, sfiorandoli con lo sguardo, leggendo i colori di ognuno, con un sorriso commosso, la fatica che gli era costata quella luce e quella luminosità. Mi ha spiegato che si trattava di una pittura informale con presenze simboliche più o meno accentuate. Ma io l’ho fermato. Gli ho detto che quelle parole non aggiungevano nulla a quello che io già capivo e sentivo di fronte ai suoi dipinti. Ora poi che lo conoscevo, che potevo scrutare il suo volto, inciso da rughe profonde e addolcito da uno strano sguardo insieme dolce e smarrito - amavo le trasparenze sottili che alleggerivano quasi a tradurre in immagine l’angosciosa ricerca di una libertà di creazione che esiste solo nella fantasia. Vedendolo dipingere tutta quella luce e quel lievissimo bagliore di sogni osservavo la dimensione di quella stanza. Così piccola, così incredibilmente assurda per un uomo che tracciava col pennello i colori di un mondo senza orizzonti. (in catalogo della mostra Luiso Sturla, Galleria Il Vicolo due, Genova, febbraio 1975)
Franco Passoni, "Luiso Sturla, Pinturas"Con questa mostra alla “Wildenstein” di olii, disegni e litografie scelte, Luiso Sturla esce finalmente da una lunga stagione di silenzioso e operoso raccoglimento, tutto speso in questi anni recenti di isolamento per la maturazione coscienziosa della sua pittura. Una pittura, questa di Sturla, intima, piena di umori, di corposità materica, di calore sensuale, tutta apparentemente portata su un piano più libero delle astrazioni formali del “costruttivismo”, e che al contrario, raggiunge una sua interna tensione, un rigore calibrato, attraverso la magistrale strutturazione del colore sulla tela, usato dall’artista con risultati di indiscutibile bellezza e come mezzo privilegiato per una definizione sensibile della forma nello spazio operativo del quadro. Quando si pensi che Sturla è uno di quei rari artisti d’oggi che più deliberatamente si addentra nei domini misteriosi del colore, attraverso l’impulso umano, per riconoscere il mondo in cui egli stesso agisce ed esiste, non sarà difficile capire che il suo è stato un esercizio formativo che è stato compiuto con puntigliosa caparbietà, quasi cercando attraverso la sua esplorazione cromatica, il mezzo più idoneo per raggiungere una dimensione più vera, più attinente alla realtà di quanto abitualmente viene consentito da un limitato grammaticalismo scolastico. Non solo ma si intenda che egli riesce a dar corpo a un’idea oggettiva, chiusa attraverso la propria finitezza, con l’adozione di una pittura che è ancora da lui intesa come puro fatto plastico, come impostazione armonica di valori cromatici, spaziali, temporali, e come rivelazione “magica” data dalla presenza degli oggetti (un fiore, un frutto, una natura morta, una siepe, un paesaggio) in quanto gli oggetti vengono visualizzati come fenomeni e rappresentati sulla tela in una trasfigurazione lirica, personalizzata dalla poetica dell’artista quasi cercando nell’esplorazione di ciò che è esistente l’avverarsi di un esperienza ignota, unica e singolare. Poiché il tema delle cose che si presentano all’artista è sempre quello dell’ambiguità del reale, della dubbiosa esistenza di ciò che percepiamo, Sturla con la scelta intelligente e misurata di alcuni temi, direttamente ispirati dalla naturalità della natura, si precisa al nostro occhio con la rappresentazione di oggetti avvalorati dalla sua ricerca, precisati da una casistica sturliana del colore, che pare stemperare i contorni delle cose con una luce modulata d’atmosfera, e trasfigura le immagini recepite in una pura realtà tutta mentale. Nascono così i suoi temi semplicissimi, quasi elementari, sciolti nelle sottigliezze tonali dalla preziosità degli impasti, che dicono meglio di ogni altro discorso come maturano le sue opere. Sin dal nostro primo incontro con Sturla, noi avemmo occasione d’osservare che a qualunque discorso Sturla preferiva il dipingere e, questa mostra alla “Wildenstein” conferma puntualmente, a distanza di tempo, la validità delle nostre primitive intuizioni: “Ogni idea - scrivemmo nel 1965 presentandolo allora alla Galleria Vismara di Milano - ogni immagine lucidamente elaborata all’interno di una coscienza poetica particolare, che non è aliena da valori emotivi senza essere per questo necessariamente sentimentale, viene tradotta da Sturla in pittura. Con un atto del dipingere che è creativo, Sturla cerca di superare un’immagine figurale che appaia contaminata da psicologismi o espressionismi. La purifica invece con un segno libero, da ogni costrizione, e tiene unicamente in gran conto lo spazio dove nasce e vive…”. Con una finestra socchiusa sul mondo dell’intimità contemplativa, Sturla ricerca quotidianamente un equilibri tra la mente e i sensi, fra la struttura della visione e la visione, e il suo è un rivolgimento così calibrato che resisterà nel tempo, per la mancanza di traumi e di shock, essendo tutto contenuto dalla sua esperienza maturata con moderazione umana. La situazione di Sturla non è isolata, ma si isola tra poche altre affini perché aliena da ogni retorica. (in catalogo della mostra Luiso Sturla, Pinturas - Settembre 1972, Wildentein)
Marco Valsecchi, "Luiso Sturla" - Centro Culturale OlivettiNon conosco tutto il lavoro precedente di Sturla. Anzi ho visto solo alcuni dipinti, occasionalmente, quando il giovane pittore tendeva a rappresentare, nel filo di un discorso pittorico iniziato da alcuni artisti spagnoli, la superficie del muro: scalfito, maculato d’umidi salnitri, graffiato di segni, di parole, ruvido di calce e di sabbia, muri del pianto, muri da fucilazioni, muri squallidi come è squallida una vita senza più sfoghi e speranze. Quanto fosse dovuto a un sentimento sincero di chiusura, di apprensione morale, e quanto invece alla retorica di una situazione ambientale o al fascino di un motivo culturale, mi è difficile dire. E del resto, nei giovani, la personalità sempre cresce su questi margini imprecisi e la maturità sopravviene appunto nella misura con cui si vincono queste ambiguità nella forma di una chiarezza graduale dei sentimenti, dei propositi, dei risultati. Quel che mi interessa di più, in questo momento, è di avvertire come lo Sturla nei dipinti di questa mostra, che raccoglie opere non più remote di un biennio, sia entrato in una situazione appunto più chiara della sua coscienza, dei suoi mezzi e delle sue finalità. Per quel poco che si riesce a cavar di bocca a un pittore - che giusto ha altri mezzi, che non le parole, per esprimersi - mi sono fatto la convinzione che Sturla si sia persuaso a chiudere una esperienza pittorica dove, al di là della prima attrazione emotiva, a sfondo drammatico, finì per avvertire una scarsa partecipazione della sua natura più veritiera. Direi di più: si è convinto che quella condizione di denuncia appariva ormai frustrata dall’abitudine, e al bisogno del grido angosciato, che essa comporta, subentrasse una necessità non dico più calma, ma di prospettive più naturali, più umanamente caritative. Un desiderio, più precisamente, di dialogo per la via della confidenza, invece che della rabbia; un concordare con le eterne verità del mondo e con le persuasioni dell’esistenza, invece che rompere con le ribellioni e le insofferenze. Potrebbe sembrare un atto di stanchezza, questa dimissione volontaria dinanzi alla protesta, specie in un momento in cui la disperazione dei “beatniks”, la violenza degli “arrabbiati” è elevata, da autentica desolazione del sentimento di un’individuale alienazione, a modulo retorico di un sistema di vita, a un compiaciuto gioco di falsi disperati. E Sturla, che ha conosciuto le miserie del Bronx, la solitudine spaventosa dei reietti di New York, potrebbe persino avere dalla sua una diretta conoscenza di certi fatti e di certe situazioni, per continuare la recita di un personaggio del genere. Ma a costo di che? E camuffando soprattutto quale parte più segreta e più vera di se stesso? Credo che Sturla abbia vinto lo scacco di questa sua posizione giovanile quando avvertì di dover vincere il “gesto” brutale, l’irruente irrazionalità, con la “durata” del sentimento; dico di un sentimento più sereno, confidente, lirico. Il mondo, in effetti, non finisce nei fumi di una tregenda, l’ombra millenaristica è ancora una volta dissolta dalla luce quieta dei giorni, che ritorna a lambire le coste, gli alberi, le finestre delle case. Ma discendiamo pure, da questa prospettive un po’ tese, alla situazione più personale dell’ispirazione di Sturla, appunto a questo suo desiderio di chiara confidenza con la natura, le sue luci, le sue realtà. Essa coincide con un’esperienza poetica che la furia catalogatrice della critica ha già elencato: quella dell’impressionismo - astratto (si pensi a Sam Francis, ad Afro, all’ultimo splendente periodo delle “Cinque terre” di Birolli). Dove si celebra un rifluire di luci, di sottili trasparenze entro le clausole del rigorismo astrattista, un confondersi di sensazioni e di forme impassibili, una vittoriosa allegrezza della vita interiore sulle dure sigle dell’estetica. Sturla potrebbe ripetere per sé che il mondo è fatto di una lunga serie di visioni naturali inestricabilmente mescolate a quelle dell’immaginazione; per cui la sua pittura tende a evocare lo spazio aperto di un paesaggio con gli infiniti miracoli della luce; tende ad evocare l’essenza di un oggetto, come di un’emozione reale o immaginaria. Rendere cioè l’immagine delle cose dopo che si è intrisa della vita interiore dell’artista. Da questa angolazione emotiva si avverte meglio il senso dei suoi bianchi allagati di luminosità e del nero che giunge improvviso a risquadro di una materia tenerissima e fervida che tende a dilatarsi. Basterebbe accennare al periodo trascorso dal pittore sulle rocce a strapiombo di Manarola, dinanzi al mare deserto e lucido di sole della costa più selvaggia di Liguria, per intendere meglio la derivazione di queste immagini così trasparenti, e calde e luminose, rese più sensibili da repentine scalfitture di rosso, quasi lacerazioni o coaguli sanguigni, da nere rigature d’ombra, che insorgono da un’immaginazione tutt’altro che tranquilla, con sussulti di apprensione, di cupa impressione funesta in mezzo al fulgore della felicità luminosa. (in catalogo della mostra Luiso Sturla, Centro Culturale Olivetti, Ivrea, Marzo 1962)
Adriana Dentone, "Sturla"Sulla tela un mondo profondamente spirituale: è la poesia della realtà che non appare, l’essenziale musica della natura, un valore interiore non limitato da schemi o da empiriche categorie. Una pittura quella di Luiso Sturla interioristica nel significato più puro, già che prescinde dai fatti e dalle apparenze; una ricerca istintiva e intuitiva spinta nel cuore del reale, privo di sovrastrutture o schemi, costituito di vitalità, tensione e dinamismo. E forse questa una sintesi della recente produzione di Luiso Sturla, lontano ormai dalla pittura analitica e rigida di un primo tempo o dalle narrazioni fantastiche, quasi surreali, dal gioco d’azzurro e di rosso dei fondi marini, poesia e sogno, di un secondo periodo. Non dimentica oggi Luiso Sturla il colore di Liguria che sente profondamente, ma un nuovo mondo presenta nella sua approfondita ricerca: l’essenza della natura o dello spirito, la forza che esplode nell’universo, dinamicità, energia. Sulla tela grigi forti e delicati realizzati con una materia nuova, vitale, che racchiude nelle vibrazioni e nel movimento i colori stessi, l’essenza del cielo e della terra depotenziati di strutture materiali, espressioni di dinamismo, effervescenza, vita. Fontane aperte in maestosi zampilli o lapilli di fuoco in spazi infiniti: forme pure prive di apparenze, poiché il fatto fisico e il dato intuiti nella loro essenza, sono trasfigurati e ricreati. La pittura di Luiso Sturla è vitalistica e spiritualistica insieme: vuole la distruzione della crosta che copre il reale per scavare dentro, coglierne l’intima essenza, la vita interiore spoglia da schemi, intesa come slancio vitale, creatività smisurata, vulcanica tensione senza leggi fisse. Pittura astratta questa, ma a un tempo pittura concreta, poiché nulla è più concreto del valore rivissuto interiormente, ricreato nell’atto spirituale. (In catalogo della mostra Sturla, Galleria Numero Firenze, giugno - luglio 1958)
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